mercoledì 12 giugno 2019

Song to Song (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 24/10/2018 Qui - Speravo in un cambiamento, un'evoluzione, o quantomeno un lieve discostamento. Niente da fare. Siamo sempre fermi nello stesso identico punto. Perché esattamente come il suo predecessore, questo film dice poco. Perché già con il vacuo e noioso Knight of CupsTerrence Malick aveva iniziato a mostrare primi segni di cedimento, e con Song to Song, film del 2017 scritto e diretto dal leggendario regista statunitense, le cose non sembrano essere migliorate. Certo, rispetto ai film precedenti (soprattutto l'ultimo) la trama è più lineare ed è chiaro fin da principio dove si voglia andare a parare, ma mai come in questo film tutti gli attori sono ridotti a bellissimi archetipi spersonalizzati, simboli in movimento che in un flusso di coscienza forzatamente poetico si fanno portatori di una morale sintetica e ingannevole, che cerca di sublimare la banalità del messaggio attraverso l'utilizzo della forma. Una forma pretenziosa e ricercata (attraverso immagini sublimemente e lentamente riprese della natura, attraverso location in generale e personaggi, esteticamente sempre molto attraenti) e con numerosi e continui flash back troppo elevata ed affatto necessaria al significato del film (assimilabile nel concetto dell'amore nel suo evolversi e nelle sue diverse sfaccettature ed incongruenze) e pertanto l'opera si appesantisce notevolmente, divenendo "costruita" e poco diretta (d'altronde il regista costruisce questa storia con le stesse ed identiche modalità con cui ha creato le sue pellicole precedenti, ovvero solo tramite immagini e suoni). Insomma un trionfo, quasi eccessivo, dell'estetica che (nuovamente), sì, appaga l'occhio dello spettatore (dopotutto anche qui sempre eccezionale è la fotografia di Emmanuel Lubezki), ma poiché esso viene (nuovamente) ripetuto in continuazione senza aggiungere nulla di nuovo, lo tedia anziché affascinarlo. Perché non possono le immagini sostituire una storia affascinante ma inconcludente come questa, quella di BV (Ryan Gosling), un musicista che cerca il successo con l'aiuto della compagna (Rooney Mara) e del suo produttore Cook (Michael Fassbender, che nel frattempo irretisce la cameriera Rhonda ovvero Natalie Portman) le cui esistenze si intrecciano in un mondo di seduzioni e tradimenti.
Sì perché, qui almeno c'è un soggetto, ma tuttavia non una sceneggiatura, e l'eterno flusso di coscienza (120 minuti che sembrano due settimane) è composto (nuovamente) da frammenti di improvvisazione rincollati in sala di montaggio con pretenziosi voice-over registrati in un secondo momento. Come se non bastasse tra riprese che danzano addosso agli attori con amorosa ossessione, monologhi sognanti, che oscillano tra lo sbocco logorroico e passionale e la meditazione filosofica, dialoghi ellittici che suggeriscono situazioni più che spiegarle chiaramente, Song to song sembra avvicinarsi paradossalmente più ad un "moral play" di stampo biblico che a un film vero e proprio, con personaggi non tanto inconsistenti quanto effimeri, giacché esattamente come il precedente film, questa pellicola è vuota, piena di niente. Eppure, quest'ultima pellicola è sicuramente migliore del suo precedente lavoro, che poteva essere associato a un racconto per immagini, dove la comunicazione veniva messa in secondo piano per lasciare spazio all'arte. Con Song to Song è evidente infatti la volontà del regista di voler trattare la storia dei suoi quattro personaggi seguendo un filone logico e mettendo in luce tematiche universali, che rappresentano la vita di ogni uomo. Nel film, infatti, si passa dall'innamoramento al tradimento, dalla morte al "ritorno alla vita" (quest'ultimo termine non è da intendere però come una resurrezione nel vero senso della parola, ma è da prendere come un "ricominciare a vivere", "perdonare e andare avanti", perché nella vita tutti compiono degli errori e spesso meritano una seconda chance). Tuttavia i temi di cui sopra vengono solo citati e mai approfonditi, tanto che la pellicola assume una valenza puramente metaforica. Non che ci sia nulla di male in questo, però il regista ce li lascia assaporare per poi non regalare nulla di abbastanza sostanzioso da soddisfare lo spettatore, che si ritrova così a porsi innumerevoli domande senza trovare alcuna risposta.
L'unico valore aggiunto di questo film è l'ambientazione: il mercato musicale, con scene girate direttamente dietro le quinte di importanti concerti. Non a caso a sorprendere è soprattutto la colonna sonora speciale che, in puro stile Terrence Malick, trascende il rappresentato, concentrandosi su musica celebrale e sofisticata, calata in un'ambientazione decisamente rock. Ad ogni cambio di situazione, o quasi, viene inserita infatti una canzone diversa, cosa che fa emergere la volontà (da parte del regista) di voler suddividere la storia e i vari momenti dell'esistenza di un uomo attraverso appunto una colonna sonora accattivante, talvolta movimentata e fresca e talvolta lenta e intensa. Peccato che, sia la colonna sonora, sia sontuosità delle scene, come sempre splendide e del montaggio sempre a dir poco coraggioso, non vengano sorretti dall'indagine interiore dei protagonisti, spesso fondamentale nelle opere del regista, poiché anche se essi grazie ad alcune scene acquistano un minimo di profondità, qui abbiamo in verità solo storie di amori, passioni e tradimenti, con qualche piccolo accenno alla quasi scontata forza degli uomini di potere. Inoltre, ancora una volta non convincono le scelte registiche di Terrence Malick, il quale mette insieme scene di poco spessore che si susseguono in maniera così rapida da non lasciare allo spettatore il tempo di rendersi conto di ciò che sta succedendo. Tuttavia grazie a questo (insieme a qualche accenno di profondità) si riesce comunque a seguire il film, ma ciò in ogni caso non basta per dire che il film è in grado di mantenere l'attenzione del pubblico per le oltre due ore di proiezione: nonostante vengano trattati argomenti molto interessanti e intensi (basati su una sceneggiatura sì diretta ma anche piena di domande retoriche) prevale difatti quella sensazione di "inutilità" e pesantezza che rende la pellicola leggermente soporifera.
Questo appunto perché Malick continua ad usare uno stile improntato sul racconto per immagini (immagini, che vorrebbero essere dolci e leggiadre ma che risultano spesso invece solo violente, commentate dalla solita voce narrante del povero interprete di turno, il quale tenta di biascicare discorsi che vanno dal demenziale all'insopportabile), dove la recitazione degli interpreti viene messa in secondo piano. Poche sono le battute "face to face" tra gli attori in quanto il più delle volte sentiamo le loro voci fuoricampo. Un vero peccato se pensiamo che il talento di attori del calibro di Ryan Gosling, Michael Fassbender, Rooney Mara e Natalie Portman poteva essere usato meglio di così. Nonostante ciò, è bene dire che la loro interpretazione è stata impeccabile: tutti sono risultati particolarmente espressivi e sono riusciti a dare una parvenza di credibilità ai loro personaggi (anche se tutto quello che fanno è sussurrarsi, toccarsi, rotolarsi sul letto e sui pavimenti, litigare, guardarsi con occhi di pianto). Questo ci dimostra quanto a volte le parole siano superflue, ma non cambia il fatto che lo stile del regista tenda a confondere lo spettatore perché inserisce anche scene fuorvianti e che talvolta non hanno senso di esistere. Pertanto, nonostante la scelta (soprattutto estetica tranne uno) degli attori sia risultata quanto mai azzeccata da parte di Malick, infatti sia Ryan Gosling, che Michael Fassbender, che la paradisiaca Rooney Mara (di cui resta la sua bellezza catartica, fatta di movimenti ed espressioni) e Natalie Portman (al suo massimo splendore), in aggiunta alle "comparse" brevi o sporadiche di altri famosi attori, quali Val Kilmer (alquanto però ridicolo) Cate Blanchett (fortunatamente sempre bellissima) per citarne alcuni (addirittura Malick scomoda gli interventi di due grandi autori della musica: Iggy Pop e Patti Smith), dimostrano tutti di essere all'altezza dei propri ruoli, la pellicola (di 120 minuti di potenziale inespresso) non decolla affatto.
Così tanto che non può che rivelare solo quanto il regista (un regista di talento che non ha più nulla da dire) negli ultimi anni sia diventato ripetitivo e per nulla originale (e un po' sinceramente mi dispiace). Non c'è mai un guizzo, mai un'emozione, mai qualcosa che dia un senso del tutto compiuto. E in verità di musica ce n'è poca, il che è strano per un film che s'intitola Song to Song. Pertanto, nonostante le premesse allettanti dei trailer e del nome stesso di Malick, il film può venire benissimo tralasciato, oppure, semplicemente aggiunto come conoscenza alla filmografia dei suoi estimatori, ma purtroppo nulla di più. Perché pur avendo molti aspetti in comune con la sua precedente opera, Knight of Cups appunto, Song to Song, che riesce tuttavia a tenere maggiormente il filo della storia (anche se lo spettatore non si deve aspettare di ritrovarvi una trama nel tradizionale senso del termine, lo stile del racconto resta comunque arduo e poco immediato, stile che chiede allo spettatore la pazienza di lasciarsi raccontare i mille frammenti di un puzzle esistenziale), e che segna comunque un piccolo miglioramento, è in definitiva un film stanchissimo, trascinato, superficiale, con nulla o quasi da dire (tanto che nel bel mezzo del marasma, i bei volti degli attori e gli attori, di modelle, cantanti e quant'altro, anche se non tutti fisicamente in tono, sono l'unica cosa che permette allo spettatore di concludere la visione, attori e comparse giustamente buttati alla rinfusa nell'inquadratura con il solo ed unico scopo di attirare il pubblico). Un film in cui la calda Austin sembra l'Alaska a gennaio e le scene di sesso vantano una carica erotica di un sasso nell'erba. "Ogni esperienza è meglio di nessuna esperienza" dice il personaggio di Rooney Mara (in verità e in definitiva l'unica cosa bella di tutto il film), a parte in questo caso, però. Voto: 5