domenica 16 giugno 2019

I segreti di Wind River (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 22/03/2019 Qui - L'atmosfera affascinante ma inquietante dell'inospitale e monotono (come il ritmo, sebbene questo non implichi un'assenza di tensione, tutt'altro) Wyoming occidentale, dove i visi pallidi hanno confinato da oltre un secolo gli ultimi Arapaho, è forse la protagonista principale di questo insolito ma impeccabile thriller/non thriller, un film ben recitato e con tutti gli ingredienti (seppur già utilizzati altre migliaia di volte ma che non per questo manca di appassionare lo spettatore) al loro posto: begli scenari, buona tensione, dialoghi efficaci e un finale da godere. I segreti di Wind River (Wind River) infatti, che dichiara sin da subito la volontà di contaminare i generi del thriller poliziesco con elementi western, qui egregiamente supportati da una sceneggiatura solidissima e da una profonda introspezione psicologica dei personaggi, è una rilettura interessante e non banale della frontiera americana, con tempi e spazi cinematografici che ricordano i grandi classici del western che fu, richiamandosi invece all'attualità visiva moderna che si rifà ai fratelli Coen. Tuttavia il film non è né uno (un western in tutto e per tutto) né l'altro (ovvero non c'è il grottesco tipico dei due registi), perché anche se a sottolineare ancora di più l'apparenza western di questa pellicola ci sono pure un classico "stallo alla messicana", una fragorosa sparatoria ravvicinata in stile "sfida all'OK Corrall" ed una giustizia sommaria degna dei tempi di Wild Bill Hickok, non è davvero un western, è un film forse di denuncia sociale, in cui l'azione non è molta ed il mistero (del titolo italiano) non è poi proprio tale. E' semmai una pellicola che parla di miseria e di abbrutimento, di amore e, soprattutto, di dolore, in un'epoca in cui anche gli ultimi pellerossa hanno dimenticato le loro antiche tradizioni e forse anche la loro atavica dignità. E infatti, dopo l'ottima prova offerta con la sceneggiatura di Sicario (Hell or High Water mi manca), Taylor Sheridan, che si piazza questa volta dietro la macchina da presa, e che ha scritto e diretto questo film del 2017, uscendone di nuovo vincitore (la pellicola ha vinto il premio per la Miglior regia nella sezione Un Certain Regard a Cannes 2017), ci presenta un'altra (intensa, potente ed affascinante, ma comunque non perfetta) storia di frontiere geografiche e di comunità ai margini del mondo globalizzato.
In Wind River difatti, l'ossatura da thriller che costituisce l'architrave di tutto il film fornisce l'occasione non solo per l'indagine della scomparsa e della morte di una ragazza nativa americana, ma racconta il territorio e la comunità che lo vive. Una comunità confinata nelle riserve e condannata all'oblio, dove la diffidenza verso i bianchi viene accompagnata da un degrado morale in cui la prigione viene vista come un rito di passaggio obbligatorio. Però il punto è che il cadavere di una ragazza viene rinvenuto in un bosco nei pressi di una piccola comunità dello sperduto e freddissimo Wyoming. Il corpo presenta tracce di efferate violenze ed è misteriosamente privo di scarpe e protezioni contro il freddo, il guardiacaccia che lo ha rinvenuto, Cory Lambert (Jeremy Renner), è deciso a scovare il colpevole e si affianca alle investigazioni della sprovveduta ma sveglia agente dell'FBI, Jane Banner (Elizabeth Olsen), al suo primo incarico. La ricerca procede lentamente, tra tempeste di neve e temperature polari che frenano i ritmi del desiderio di giustizia di Cory e l'affiorare sempre più inquietante dei segreti che quella candida neve continua a seppellire sotto di sé. Quando altri cadaveri e altri indizi emergeranno, il tortuoso percorso verso la verità svelerà quanto l'uomo sappia talvolta essere crudele e violento al pari della natura che lo circonda. Una natura che non fa sconti, buoni o cattivi che siano, la natura (fredda, bellissima e letale, come quella del territorio del Wyoming, territorio qui esaltato da una stupenda fotografia) condanna irrimediabilmente il debole, la sua giustizia è diversa da quella umana e non guarda in faccia a nessuno. Una giustizia che guarda a tutti e riguarda tutti, dato che la classicissima dinamica western dell'uomo buono in lotta con un nemico per la sopravvivenza di sé e dei suoi ideali, ha qui necessità di una duplice sfaccettatura.
Non è soltanto contro la natura madre-matrigna che il guardiacaccia dovrà difendersi, ma anche e soprattutto contro la malvagità dei propri simili, instillata nell'uomo, acuita dalla desolazione delle lande di neve e impressa nelle tracce che questa conserva nel tempo. Forgiato da un dolore passato (ancora fantasmaticamente presente) e da una gran capacità di deduzione, Lambert agisce stretto in questa morsa, lo affianca l'inesperta agente dell'FBI, molto meno avvezza ad ambienti di tale ostilità ma motivata da una profonda volontà di giustizia. Se la sceneggiatura offre ottimi spunti, non sempre sfruttati al meglio dalle soluzioni filmiche adottate, la bravura di Jeremy Renner (veramente bravo ad interpretare questo dolente personaggio di cacciatore, prima di animali pericolosi e poi di uomini bestiali) avvalora la caratterizzazione del suo personaggio (il regista lavora infatti molto bene sui personaggi, anche sulla bella Elizabeth Olsen, che con la sua discreta performance cancella quel passo falso fatto con Very Good Girls) con una recitazione trattenuta, nella quale traspaiono tutta la sofferenza e la determinazione di un uomo ferito in cerca di un nuovo orizzonte. Due scene d'azione del più tipico canone poliziesco sono gestite molto bene, così come la fotografia raffinatamente giocata sui contrasti simbolici del bianco della neve, pura e diabolicamente assassina, e del rosso del sangue, segno della colpa e dell'efferatezza della violenza umana. Su questo pregevole sotto-testo di profondità psicologiche s'impone la situazione narrativa, che si delinea però in una storyline fin troppo lineare, tracciando un percorso raramente ravvivato da veri colpi di scena, lo spettatore è quindi condotto verso una soluzione troppo facile, in uno scioglimento del dramma peraltro offerto eccessivamente in anticipo (e poi replicato nel finale), tramite l'unica sequenza di flashback.
Tentativo poi non felicissimo è stato quello di innestare dentro questo mondo chiuso e auto-conclusivo (geograficamente e narrativamente), la denuncia della marginalizzazione delle minoranze indiane in America: tema solo vagamente accennato nella narrazione, e che viene poi attaccato in coda al film in modo un po' incoerente con il resto della pellicola. La fatica di Taylor Sheridan rimane dunque non del tutto ripagata, lasciandoci a conti fatti la sensazione di un'opera ottimamente scritta e pensata e non sempre brillantemente raccontata. E tuttavia il film (un prodotto dunque non memorabile ma sicuramente meritevole di una visione) si vede volentieri, e riesce comunque a direzionare piacevolmente la nostra attenzione verso il nome di questo regista (un altro da seguire nel folto panorama del cinema contemporaneo). C'è mestiere, la regia gioca bene soprattutto sul rapporto (espresso attraverso immagini forti) tra violenza colpevole dell'uomo e violenza "innocente" di una natura inclemente (forse ciò che rimane più impresso, anche se meno dichiarato) e il finale (bisogna dire) è ben congegnato. Il finale è infatti di quelli belli, ci si aspetta quasi che le indagini non finiscano mai, che non portino a un vero colpevole ma di colpo il regista mette su un flashback (forse evitabile ma utile) degli avvenimenti che hanno portato alla morte della ragazza (avvenimenti in cui a sostenere la scena c'è un funzionale Jon Bernthal), e da lì sarà tutto un fioccare di azione fino alle battute conclusive. Certo, c'è qualche lentezza di troppo, gli attori secondari sembrano fare solo da contorno, fin troppo semplice come detto è la risoluzione, ma è comunque un film meritevole di grandi attenzioni. Questo film infatti, un film ben scritto ed interpretato, un film che segna il buon esordio dietro la macchina da presa di Taylor Sheridan, già acclamato sceneggiatore di diversi film di recente fama come quelli di Denis Villeneuve, nonostante i suoi piccoli difettucci, riesce a farsi parecchio apprezzare. E questo grazie non solo alla regia, alla sceneggiatura e a tutto, che nonostante tutto appunto emoziona e sconvolge, ma anche alla brillantezza dei dialoghi, del tema e dell'ambientazione. Voto: 7