Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 26/03/2019 Qui - Dopo aver sorpreso tutti con la sua potente opera prima Lo sciacallo - Nightcrawler, Dan Gilroy è tornato dietro la macchina da presa con End of Justice - Nessuno è innocente (Roman J. Israel, Esq.), un film ancora una volta incentrato su un personaggio principale complesso e stratificato. Se il suo esordio era un thriller notturno e inquietante, in questo secondo lungometraggio, il regista che ha scritto e diretto questo film del 2017, opta per lo stesso genere, ma dandogli un contorno giudiziario ancor più politico: il protagonista, interpretato da Denzel Washington, è un avvocato di Los Angeles che ha sempre lottato per le cause dei più deboli, oltre ad essere un impegnato attivista per i diritti civili. Per le sue convinzioni e per combattere la sua battaglia per la giustizia, trascura la famiglia e la sua vita privata. Tuttavia, l'idealismo che ha contraddistinto la sua esistenza viene messo seriamente in discussione quando il suo socio in affari ha un attacco di cuore e a lui viene offerto un posto in un prestigioso studio legale gestito dal ricco e ambizioso George Pierce (Colin Farrell), uno "squalo" sostenitore di valori morali ben diversi da quelli che Israel ha sempre onorato. Due mondi completamente opposti, entreranno così in collisione, influenzandosi l'un l'altro. Nonostante l'appeal da film vecchio stampo, pronto a riproporre sul grande schermo uno schema consolidato, End of Justice si rivela una sorpresa. Il regista riesce infatti a scardinare i presupposti del legal thriller (anche questo un genere amatissimo soprattutto negli anni '80/'90) regalando allo spettatore un'esperienza cinematografica atipica. Perché più che concentrarsi sulle dinamiche strettamente giudiziarie e le pratiche da tribunale, il regista lascia difatti spazio al personaggio di Denzel Washington, quel Roman J. Israel che domina la scena con la propria contraddittoria presenza. Si tratta di un personaggio sopra le righe pieno di tic e di bizzarria, il che si sposa perfettamente con l'attitudine, potremo dire "gigionesca" dell'attore. Con quel faccione intenso che riempie l'inquadratura ad ogni scena e le movenze nevrotiche che fanno sembrare Israel talmente spostato da sembrare autistico, anche perché le battute che pronuncia si direbbero uscite da uno stato di dissociazione dalla realtà, Lui da veramente un'ottima prova.
Non è un caso che proprio per questa sua vibrante interpretazione egli abbia conquistato una nuova nomination, entrando di diritto nella cinquina dei migliori attori del 2018. Per questo che End of Justice, proprio per il suo protagonista (ma non solo), lasci un'impressione (più che sufficientemente) positiva. Utilizzando il binomio talento e sociopatia (binomio non nuovo ma comunque intrigante) a sorprendere ed interessare è anche come egli venga caratterizzato. Roman è un inguaribile idealista ingabbiato nelle contraddizioni dei nostri tempi moderni: continuare a credere, in modo ostinato e contrario, nei propri ideali o adattarsi ai cambiamenti, a costo di vendere se stessi e la propria anima? Questo il punto, perché, come già detto, il regista, più che orchestrare un legal drama con venature adrenaliniche, sembra quasi dirigere una modernissima versione dell'eterno patto faustiano tra un uomo e le proprie seduzioni: resistere a quest'ultime o assecondarle, migliorando di conseguenza la propria esistenza in modo facile? Questo è il dilemma morale che serpeggia in Roman, ma che lentamente si propaga perfino tra gli spettatori, mettendoli di fronte a una scelta. Non c'è giudizio morale nello sguardo del regista verso Roman o gli altri personaggi, il suo occhio meccanico si limita a seguirli, ad osservarli mentre scelgono (al di là del bene e del male) o mentre scelgono di non scegliere, sospendendo ogni giudizio ed eleggendo a libero arbitrio l'umanità stessa e la ragion pratica, forse il più alto metro di giudizio conquistato dall'essere umano. Washington ha il volto giusto per incarnare i dilemmi morali e le contraddizioni di Roman, ma in una cornice adrenalinica da thriller che ben rispecchia le radici di Dan Gilroy (tra le altre cose, anche sceneggiatore di un capitolo della saga di Bourne), un attore che ha saputo rendere la propria carriera versatile, spaziando dai ruoli più action al dramma più impegnato, ma senza mai perdere il proprio tratto distintivo: una disinvolta credibilità.
A proposito del regista, egli ha buon gioco nell'inserire il fascino di una Los Angeles crepuscolare e alienata, dove il caos di bancarelle con l'insegna disegnata a mano e lo sfavillio dei grattacieli distano solo un'inquadratura, e dove la filantropia dei volontari per i diritti civili si trova gomito a gomito con la violenza di strada e l'arrivismo cinico dei colletti bianchi. Dopotutto è dagli estremi di questa città che sembra prendere forma il dualismo di Israel che accompagna la seconda parte del film, proprio perché bene e male nella metropoli californiana, e poi nella vita stessa, sono due facce della stessa medaglia. Ma se il regista tecnicamente fa bene il suo lavoro, in tal senso risulta altresì apprezzabile l'omaggio alla cultura afroamericana, di cui l'avvocato si fa difensore, offerto dalla colonna sonora quasi tutta impregnata sui ritmi incalzanti degli stili musicali nati da quella cultura: jazz, soul, r'n'b, narrativamente non tantissimo. Il film sembra infatti eccessivamente dipendente dalla forza del suo protagonista. Il resto dei personaggi sono poco più che comparse, e lo stesso Colin Farrell non sembra emergere: non è né abbastanza buono né abbastanza cattivo nel suo contrappuntarsi al protagonista, procede a ondate e rimane in definitiva sullo sfondo. Anche la sceneggiatura sembra in qualche frangente frettolosa, di nuovo spesso appiattita sul protagonista dà l'impressione talvolta di approfondire poco gli snodi narrativi. Gli inserti che vorrebbero essere thrilling sembrano piuttosto estemporanei. Certo, merita di essere lodato il tema principale del film: ovvero la denuncia di un sistema giudiziario che non funziona, in tal senso Roman e George incarnano fedelmente i due classici stereotipi sugli avvocati, il primo è lo studente di giurisprudenza che ha il sogno di un mondo in cui la legge sia veramente uguale per tutti e combatte per i diritti sociali, il secondo, invece, è il tipo che veste firmato, che ha una bella macchina, un ufficio all'ultimo piano ed è più preoccupato dei suoi affari che delle vite dei suoi clienti, lo spaccato del mondo delle toghe e dei codici penali che viene offerto mostra schiere di avvocati più impegnati a motivare le loro alte parcelle, che ha difendere il cittadino, purtroppo però la sceneggiatura, dopo essere riuscita a mostrarci questi interessanti spunti, non riesce sempre a svilupparli in modo convincente.
L'incipit concentra lo spettatore sull'azione compiuta da Roman, in netto contrasto con i suoi principi, e lo distoglie dallo sviluppo psico-sociale che provoca questa trasformazione nel protagonista. Anche i personaggi di contorno sono inseriti senza integrarsi nel contesto, non solo George (Colin Farrell), che fatica ad entrare nella vicenda senza lasciare quasi mai il segno, ma anche Maya (Carmen Ejogo), che dovrebbe rappresentare il filo che tiene attaccato Roman alla sua moralità, che invero pare più un personaggio costruito per riempire alcuni momenti di stanca del film. Un film dalla trama leggermente confusionaria, impacciata e a tratti incoerente. "Nemici" che diventano amici, storie secondarie, aperte e chiuse, solo per guadagnare qualche decina di minuti in più e personaggi con uno sviluppo discutibile, sono solo alcuni esempi. Insomma, la sceneggiatura non convince. Tuttavia nonostante questo e una conclusione piuttosto debole, la pellicola riesce comunque a coinvolgere dall'inizio alla fine, supportata da dialoghi ben scritti e dalla potente prova di Washington, perfettamente in parte. Non è un caso che a dare valore al film, un film sicuramente molto avvincente e ben ritmato (sebbene la rappresentazione di qualche situazione risulti poco realistica), è proprio Lui. La figura che egli interpreta, infatti, così estremizzata appare sicuramente come poco realistica, ma l'attore riesce in ogni caso a renderla vera e, dunque, accettabile. Tirando le somme, End of Justice non brillerà, di sicuro, per innovazioni o piccole rivoluzioni, dopotutto è un film tradizionalista che gioca sicuro, recuperando schemi e strutture del genere, ma nonostante alcuni errori della sceneggiatura, il film risulta godibile. Denzel Washington merita di essere ammirato in una delle sue prove migliori della sua carriera. Infine, il tema trattato offre sicuramente spunti di riflessione importanti. Dopotutto di End of Justice narra una storia che potrebbe capitare a tutti: trovarsi a recedere dalla propria linea di condotta morale, a ripensare le proprie convinzioni, a deviare per risolvere problemi e prendere la via rapida. Non è l'azione, l'evento e nemmeno la scelta a determinarci, ma come reagiamo di fronte a essa. E quindi non da sottovalutare è questo film, però se tutto questo meriti una visione, lo potete sapere (come sempre) solo voi. Voto: 6,5
L'incipit concentra lo spettatore sull'azione compiuta da Roman, in netto contrasto con i suoi principi, e lo distoglie dallo sviluppo psico-sociale che provoca questa trasformazione nel protagonista. Anche i personaggi di contorno sono inseriti senza integrarsi nel contesto, non solo George (Colin Farrell), che fatica ad entrare nella vicenda senza lasciare quasi mai il segno, ma anche Maya (Carmen Ejogo), che dovrebbe rappresentare il filo che tiene attaccato Roman alla sua moralità, che invero pare più un personaggio costruito per riempire alcuni momenti di stanca del film. Un film dalla trama leggermente confusionaria, impacciata e a tratti incoerente. "Nemici" che diventano amici, storie secondarie, aperte e chiuse, solo per guadagnare qualche decina di minuti in più e personaggi con uno sviluppo discutibile, sono solo alcuni esempi. Insomma, la sceneggiatura non convince. Tuttavia nonostante questo e una conclusione piuttosto debole, la pellicola riesce comunque a coinvolgere dall'inizio alla fine, supportata da dialoghi ben scritti e dalla potente prova di Washington, perfettamente in parte. Non è un caso che a dare valore al film, un film sicuramente molto avvincente e ben ritmato (sebbene la rappresentazione di qualche situazione risulti poco realistica), è proprio Lui. La figura che egli interpreta, infatti, così estremizzata appare sicuramente come poco realistica, ma l'attore riesce in ogni caso a renderla vera e, dunque, accettabile. Tirando le somme, End of Justice non brillerà, di sicuro, per innovazioni o piccole rivoluzioni, dopotutto è un film tradizionalista che gioca sicuro, recuperando schemi e strutture del genere, ma nonostante alcuni errori della sceneggiatura, il film risulta godibile. Denzel Washington merita di essere ammirato in una delle sue prove migliori della sua carriera. Infine, il tema trattato offre sicuramente spunti di riflessione importanti. Dopotutto di End of Justice narra una storia che potrebbe capitare a tutti: trovarsi a recedere dalla propria linea di condotta morale, a ripensare le proprie convinzioni, a deviare per risolvere problemi e prendere la via rapida. Non è l'azione, l'evento e nemmeno la scelta a determinarci, ma come reagiamo di fronte a essa. E quindi non da sottovalutare è questo film, però se tutto questo meriti una visione, lo potete sapere (come sempre) solo voi. Voto: 6,5