Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 22/08/2018 Qui - Il 2017 è stato l'anno in cui Patty Jenkins e Gal Gadot hanno riportato alla ribalta il personaggio di Wonder Woman nelle sale cinematografiche di tutto il mondo, dando vita al film più apprezzato e chiacchierato del DC Extended Universe della Warner Bros. (Justice League anche se mi manca non credo sarà migliore), Professor Marston and the Wonder Women, film del 2017 scritto e diretto da Angela Robinson, ci riporta negli anni Quaranta e ci racconta la mente e le vicende di chi ha creato la prima eroina femminile della DC Comics. E non ci credereste mai, non conoscendo la vera storia, chi la creò e il perché (e come per giunta). Se non sapete già del dietro le quinte dell'amazzone più famosa di tutti i tempi, per noi comuni mortali Diana Prince, la superdonna per eccellenza, il simbolo dell'emancipazione femminile formato fumetto infatti, potreste rimaner delusi e leggermente spiazzati nello scoprire che in realtà dietro all'eroina si nasconde un mondo vizioso, un urlo di trasgressione che l'America degli anni Quaranta non poteva accettare. Se in apparenza Wonder Woman sembra rivolgersi a un pubblico molto giovane, la storia del suo autore è da tenere lontana dalla portata dei bambini. Nei panni del Professor Marston, psicologo (affascinante, un rubacuori in grado di far sognare le sue allieve tra un tomo da studiare e una lezione) che prima di creare Wonder Woman inventò la macchina della verità, un convincente Luke Evans. Ma è Rebecca Hall a rubargli la scena, almeno nella prima parte del film, nel ruolo della moglie in carriera, intelligente e arguta, che contribuisce a strapparci più di un sorriso (che ha uno spirito libertino). L'equilibrio della coppia viene un giorno spezzato dall'ingresso nelle loro vite di Olive, interpretata da Bella Heathcote, bella di nome e di fatto ma forse non troppo a proprio agio nei panni di questo personaggio, che diventa l'assistente di Marston. Ed è a questo punto che fra i tre nasce uno strano rapporto, che metterà a rischio le loro idee e il loro rapporto "allargato". Sulla carta quindi una storia intrigante, disseminata di "ménage à trois", dinamiche sadomasochistiche intrecciate a quelle del linguaggio e relazionali, l'invenzione della macchina della verità declinata (solo) come strumento per scandagliare i desideri del subconscio, gli anni '30 statunitensi e Wonder Woman. Il fatto che il tutto si ispiri a fatti realmente accaduti fornisce una verosimiglianza di partenza che dovrebbe ulteriormente aiutare la causa.
Purtroppo però una storia con tali premesse dissacranti e anticonformiste viene nei fatti sviscerata in modo terribilmente convenzionale. La piatta regia non osa quasi mai, limitandosi a uno stile patinato (i pochi momenti in cui la regia azzarda un barlume di visionarietà, i paralleli tra gli atti sessuali e il ricovero in ospedale, la sagoma delle due donne che diventa un tutt'uno, che risultano comunque smorzati e poco interessanti, annegati in un marasma di meccanismi risaputi, quali la coincidenza dei momenti di "crisi"), che suggerisce i colpi di scena con ampio anticipo smorzandoli sul nascere e tende ad ammantare il tutto di un profumo piccolo borghese nonostante tutto. Professor Marston & the Wonder Women è per questo un film certamente ardito, che invita, anche in modo un po' eccessivo, alla libertà dei rapporti sentimentali. Tra le mura domestiche tutti hanno il diritto di vivere come vogliono, senza essere giudicati dai vicini o dai datori di lavoro. Il messaggio è forte, ma la regista Angela Robinson, la stessa di Herbie: Il super Maggiolino per intenderci, non riesce a scaldare lo spettatore. Inoltre il bondage e il sadomasochismo vengono affrontati con superficialità e alcune scene suscitano risate fuori luogo. Non dimenticando che questo è un biopic dai toni vaporosi (forse troppo in alcuni casi) dove la commedia (ingiustamente) prevale sul dramma. Un biopic che comunque non manca di far riflettere su argomenti seri e sempre attuali, quali il ruolo della donna in ambienti di lavoro considerati "maschili" e la libertà di vivere i propri sentimenti come meglio si crede senza curarsi dei (pre)giudizi della società. Tuttavia al di là delle tematiche riguardanti la libertà dei costumi e la posizione sociale della donna, che rivestono ogni direttiva, il film cerca spasmodicamente di assemblare un groviglio di transizioni di diversa estrazione, nel più classico archetipo biografico che vuole spacciare un contenuto unendo testa, cuore e spirito. Un cocktail che funziona solo a piccole sorsate e che si appesantisce nel corso dell'esposizione, arrivando in fondo disidratato e privo di fiato. Gli attori a loro volta stanno al gioco fornendo una recitazione corretta e perennemente controllata, figurine sorprendentemente edulcorate (non sono una banda di perversi, bensì ricercatori etici e fin sentimentali che non vogliono altro che l'amore e una famiglia dalle dinamiche alla fin fine tradizionali) che ben s'intonano però con il tono incolore del film. Un film comunque interessante e importante ma solo sufficiente e alquanto dimenticabile. Voto: 6