Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 05/09/2018 Qui - C'è voluto più tempo del previsto (quasi 7 mesi), ma finalmente sono riuscito a recuperare il prequel di un film che ha ringiovanito un genere, perché per tutti coloro che pensavano che le vie dello zombie-movie fossero finite, il 2016 (io tuttavia l'ho visto quest'anno) ci ha infatti regalato una nuova pietra miliare del filone: il coreano Train to Busan, esaltante blockbuster a tema, che con molta probabilità (e sfortunatamente però) potrebbe essere rifatto ad Hollywood. Train to Busan difatti è un film studiato nel dettaglio, ibrido e di estetica impeccabile, che in perfetto stile asiatico accosta aspetti tipicamente di genere, come l'invasione di infetti simil-zombie che innesca il racconto, a risvolti più profondi ed umani che si concretizzano nelle dinamiche genitoriali del protagonista e della piccola figlioletta (la mia recensione completa qui). Un film bello e convincente che fu il risultato sorprendente di un filmmaker alla soglia dei 40 anni che non si era mai cimentato in un lungometraggio in carne ed ossa, scorrendo il curriculum di Yeon Sang-Ho infatti, si trovano esclusivamente tre lunghi e due corti, tutti d'animazione. Uno di questi lunghi, Seoul Station, film d'animazione anch'esso del 2016, è proprio il prequel animato di Train To Busan, che si tuffa nella stazione ferroviaria della metropoli coreana per scoprire come sia nato e si sia propagato il virus letale (anche se le reali cause rimarranno ancora sconosciute). Un zombie movie d'animazione quindi, cosa che in verità è una novità assoluta, e che quindi per questo ha già molto per suscitare curiosità, a memoria, si tratta infatti del primo film dell'orrore animato a tema zombie, e questa peculiarità basterebbe a motivarne la visione, ma non solo, perché anche se la curiosità che potrebbe spingere appunto la visione come ha fatto con me potrebbe non essere comunque sufficiente, dato che si rimane un po' insoddisfatti dal risultato complessivo del prodotto, in Seoul Station ritroverete quel suggestivo incontro ed equilibrio tra dramma e tensione che fece la fortuna di Busan (direzione che parte proprio dalla stazione di Seoul), così come un sottile ma efficace ritratto degli angoli neri e delle falle della società coreana.
Non a caso, il contagio colpisce per primi i senzatetto accampati nei meandri della stazione, dei non protetti, neanche dalle forze dell'ordine, che si rendono conto di essere vittime designate in quanto non hanno un posto dove vivere permanentemente. E poi minaccia la giovane prostituta Hye-sun, altra anima vulnerabile fagocitata dai vicoli di Seoul. Veniamo infatti a conoscenza del diffondersi dell'epidemia quando un anziano clochard gravemente ferito, dopo il decesso, si trasforma in un morto vivente affamato di carne umana, che infetta chiunque venga da di lui morso, e veniamo quindi impelagati nel cuore narrativo del racconto che si concentra appunto su una giovane prostituta, ma anche il suo compagno-protettore e il "padre" della ragazza, scappata di casa da anni. Questi tre personaggi, separati nel corso degli eventi, cercheranno di riunirsi mentre nelle strade si scatena il panico e il contagio si propaga senza sosta, e quando alla fine ci riusciranno (perché abbastanza chiara è la via) la storia prenderà una piega inaspettata e molto cruda. Giacché progressivamente, le premesse horror retrocedono in favore di vicende più terrene, una fuga in cui gli interessi umanamente biechi sovrasteranno persino lo stato di emergenza in cui crolla la metropoli. Così, la risoluzione di Seoul Station è l'atto più palpitante ed intenso del film, che prima di lasciare la scena agli eventi di Train To Busan ci fa parteggiare (inevitabilmente) per gli infetti, male minore di un mondo descritto come egualmente tragico, anche senza mostri. Tutto questo viene raccontato con una tecnica di animazione pre-CGI, quasi vintage, forse un po' pulita per un racconto di paura, ma di artigianale fascino. Anche se proprio la qualità tecnica dell'animazione è uno dei lati relativamente negativi dell'operazione, perché appunto seppur non priva di spunti affascinanti, è al di sotto di quella tipica delle produzioni nipponiche, con fondali fissi in cui le figure si muovono un po' scattosamente (a scatti). A conti fatti però l'impatto visivo è un elemento puramente secondario in una visione dove la storia acquista suprema importanza, donando importanti spunti politici e sociali ad un contesto tipicamente horror, da cui reinventa con ispirazione situazioni e sviluppi.
C'è da dire in tal senso che alla luce dell'eccellente Train to Busan questo film potrebbe però fare la figura del cugino povero, anche perché Seoul Station inciampa in una sceneggiatura un po' esile, che fa leva più su situazioni e atmosfere che non su azioni di carattere narrativo, narrazione che a sua volta non trae respiro dallo stentato e affaticato ritmo di tutto il film, che si trascina un po' ansimante (proprio come uno zombie) sino al finale, ma è un bel lavoro a sé stante, e il fatto di essere un'animazione, e quindi meno commerciale rispetto all'altro lavoro, gli dà la possibilità di spingersi di più in un'atmosfera molto cupa e una storia di miseria umana. Insomma un film che siede comodamente nella propria nicchia e non deve rendere conto a nessuno. Perché anche qui l'epidemia ha un forte simbolismo sociale come era anche in Train to Busan, Yeon Sang-Ho infatti fa sua la lezione di George A. Romero e utilizza il genere per mettere in mostra le contraddizioni di un Paese (ma che si rispecchiano nitidamente in un quadro globale) in cui gli individui sacrificano ogni cosa sottoponendosi a massacranti turni di lavoro e in cui i poveri, vittime di queste situazioni, vengono visti come reietti. Non è un caso che uno dei personaggi principali sia proprio un senzatetto e che polizia ed esercito, pur di mantenere uno stato di sicurezza, non esitino a sacrificare civili innocenti. Seoul Station è perciò denso di profonde sfumature etiche ma si dimostra efficace anche nei suoi puri istinti orrorifici, con fughe a rotta di collo (da brividi e scenograficamente appagante, quella in cui la ragazza cerca una via di salvezza camminando in bilico su delle travi mentre orde di zombie cercano di raggiungerla) e una sana violenza che, pur smussata dall'essenza animata, è cruda e sanguigna al punto giusto. Inoltre il colpo di scena che ha luogo nella resa dei conti finale rivela un saggio lavoro di scrittura e l'amaro epilogo (particolarmente metaforico, con la quasi assenza di zombie ma un inquietante ed irreale lusso in vendita che fa da sfondo alla misera fine della storia) possiede una feroce e sanguigna brutalità che rispecchia magnificamente quanto visto in precedenza.
Tuttavia se a ciò ci aggiungiamo un bel lavoro anche con le musiche, che vanno dai toni malinconici all'impeto del riff di chitarra metal che accompagna l'irrompere della compagine di zombie, che sulla fotografia, spesso su toni blu e verdi, a denotare la vena crepuscolare del film, qualcosa non è comunque perfetto. I problemi riguardano soprattutto i sottotitoli italiani (perché l'unico modo per vederlo è questo soltanto) che inseriscono parolacce o espressioni gergali dove non ce ne sarebbe bisogno. Sottotitoli che seppur rappresentano un passo in avanti dopo il doppiaggio leggermente deficitario del sequel non animato, mettono in evidenza una lingua coreana parecchio stridula, in cui a farla da padrone sono grida e pianti parecchio fastidiosi. Come detto poi, anche se non è importante, seppur l'animazione è in tono con la vicenda raccontata e coerente con i lavori precedenti del regista, tanto che riesce comunque a dare momenti di reale suspense (sebbene i morti-viventi siano un po' meno paurosi di quelli "reali" del film "originale"), essa è leggermente rozza, ed inoltre non pare fluidissimo il modo in cui i personaggi corrono, anzi piuttosto goffo, anche troppo. Senza dimenticare che il coinvolgimento non è minimamente paragonabile al live action, di molto superiore in ogni dettaglio, non solo nella grafica, anche nei dialoghi e nella staticità di alcuni momenti che non permettono, a mio avviso, un interesse costante e dove non sempre il pathos e l'action riescono ad incidere più di tanto, così tanto che il suddetto sfiora la noia e in più parti risulti abbastanza caotico, urlato e quasi irritante. Giacché pensando al sequel, sorprende vedere come il regista Yeon Sang-Ho, in un certo senso all'esordio di fiction con Train to Busan, si sia stranamente trovato più a proprio agio con attori (e zombie) in carne e ossa che non con creature animate. Train to Busan è un vero treno in corsa, adrenalinico, energico, che diverte e rilancia più volte la vicenda senza sciuparsi sul finale. Seoul Station è un po' il contrario: rimane generalmente piatto e un po' impersonale. Eppure quest'opera affascinante, in cui la ferale violenza di genere è magnificamente ibridata a un sottotesto sociale e politico tagliente quanto basta (gli zombie di Seoul Station non fanno prigionieri ed il film è senza compromessi e schiettamente cupo), e in cui la corsa per la sopravvivenza dei quattro principali protagonisti, in fuga da orde di morti viventi, appassiona con una grinta letale, e in cui la raffinata e non scontata sceneggiatura fa chiudere un occhio su una qualità tecnica appena discreta, insieme con Train to Busan egli forma una coppia che (anche se non propriamente in termini narrativi) si completa bene, tanto che questo anime di sicuro soddisferà (seppur parzialmente) gli amanti del genere e non solo. Voto: 6,5