giovedì 6 giugno 2019

Lights Out: Terrore nel buio (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 10/09/2018 Qui - Alzi la mano chi non ha mai avuto paura del buio, dei mostri nascosti sotto il letto che saltano fuori quando tutte le luci si spengono e la casa piomba nel silenzio, e che di giorno, come per magia, si dissolvono sotto i primi raggi del sole. Con il passare del tempo questi mostri sono diventati sempre più inoffensivi e sono rimasti chiusi a doppia mandata nel cassetto dei ricordi d'infanzia, ma quella sensazione di pericolo legata al mondo delle ombre si risveglia ogni qualvolta si spegne la luce e si rimane soli con se stessi. David F. Sandberg nel suo Lights Out: Terrore nel buio (Lights Out), film del 2016 che attinge ad un cortometraggio del 2013 diretto dallo stesso Sandberg, invece di reprimere questo impulso, ha preso questa paura è l'ha trasformata in un mostro che si nasconde nel buio e che si nutre del terrore di chi lo incontra. L'unico modo per esorcizzarlo è tenere lontane le tenebre accendendo la luce. Questa è l'idea del film, un concetto semplice e di sicuro non originalissimo da cui prende avvio una storia dell'orrore più complessa, che estende l'incubo alle malattie mentali e ai drammi familiari che ne derivano. L'occhio del ciclone attorno al quale si sviluppa la storia infatti è Sophie, una donna disturbata, che vive quasi sempre relegata nella sua stanza e non interagisce con nessuno, ad accezione di una donna che solo lei riesce a vedere, Diana, conosciuta mentre era ricoverata in clinica psichiatrica. Il suo stato mette a dura prova tutta la sua famiglia e costringe Rebecca, la figlia maggiore, ad andare via di casa e il fratellino Martin a trascorrere notti insonni. Che sia un sogno, una fantasia, o un mostro in carne ed ossa, Diana non può fare a meno della sua amica Sophie, al punto da diventare parte della casa stessa e a tormentare tutti i suoi abitanti ogni qualvolta scende la notte. Diana è fatta della stessa sostanza delle ombre, ma è veloce, agile e ha una forza sovrumana. Non c'è nessun'arma in grado di ucciderla e l'unico modo per aver salva la vita e non spegnere mai la luce.
Come detto quindi, Lights Out, che sembra un bigino del new horror di scuola Blumhouse (Paranormal ActivityInsidiousSinister e compagnia bella) non inventa davvero nulla e in verità sta un po' qui il suo limite principale. Giacché anche qui c'è, l'alternanza di buio e luce, il solito bambino messo di fronte all'orrore, disegni infantili, manichini (la bella sequenza iniziale), maniglie che si muovono di notte, rumori, sgabuzzini bui, un baubau che terrorizza più quando se ne vede solo la silhouette che non quando lo si scopre in tutta la sua corrotta e deformata fisicità. E poi ancora la tradizione della ragazzina maledetta come in The Ring, la figura materna "deviata" e instabile sulla scia di Oculus: Il riflesso del maleBabadook e La madre, i filmati in 16 mm per scoprire il passato dell'orrore, l'immancabile istituto psichiatrico dove tutto è nato. Insomma, quanto l'horror odierno ci sta offrendo in questi anni a livello di soprannaturale, case infestate e famiglie maledette è stato racchiuso da Sandberg e dallo sceneggiatore Eric Heisseser (i remake de La cosa e di Nightmare) in questo prodotto a bassissimo budget che però, nonostante un grado di originalità vicino allo zero, ha anche dei meriti. Innanzitutto le trovate di Sandberg, con la creatura che si avvicina inesorabilmente con l'alternarsi di luce e buio, spaventano ancora oggi come nel corto del 2013 e il minutaggio stringatissimo (76 minuti) fa sì che il racconto non si perda inutilmente tra spiegoni e parentesi inutili, anche se sinceramente s'avrebbe potuto fare a meno del fidanzato belloccio di Rebecca (la figlia) senza che il film perdesse alcunché. Ma soprattutto l'inizio notevole, dato che Lights Out inizia subito forte e ci fa entrare in contatto con la paura senza mai disperderla. Cosa che in verità non capita spesso, poiché una delle più grandi sfide per un film horror, è riuscire a dare continuità alla paura, senza scatenarla in momenti alterni, ebbene, tra i titoli più recenti, questo film è quello che più riesce nell'impresa.
Lights Out infatti, e come già accennato dura in tutto 1 ora e 20 minuti, rivelandosi per questo un piccolo concentrato di terrore, con l'inquietudine che attanaglia dall'inizio alla fine. L'orrore difatti ci investe sin dalla prima scena, promessa di un crescendo di tensione che viene mantenuta. Non a caso il prologo risveglia subito in noi una paura in fondo mai del tutto sopita come quella del buio, che ci assale fin da piccoli (io per esempio avevo una lucina a forma di animale vicino al letto sempre accesa) poiché da sempre si associa all'ignoto, e di conseguenza allo spaventoso. A nascondersi nell'ombra in questo caso è un'entità terrificante dalle sembianze di una donna, la cui storia è al centro del mistero alla base del film. Un mistero che prende corpo in un manicomio e finisce per avvolgere la vita di una famiglia, disfunzionale già di suo. Così, il male non è limitato alla sola figura del mostro, ma si fa allegoria di un demone più grande e spietato quale la depressione, in cui sprofonda il personaggio di Maria Bello, non è un caso che la sua è una posizione simile a quella della madre protagonista di Babadook, imprigionata in un incubo da cui non sembra esservi uscita. Un tunnel oscuro che di riflesso inghiotte anche i suoi due figli, interpretati da Teresa Palmer e dal giovane Gabriel Bateman. Proprio perché c'è una sfumatura di dramma familiare tra i contorni da thriller psicologico e pop-corn horror del film. Un mix ben orchestrato in cui la dicotomia luce-oscurità è gestita alla perfezione a livello visivo, simbolico e di scrittura (non c'è angolo buio che non generi ansia). Certo, i problemi non mancano e sono anche evidenti, anche perché non è scontato riuscire a maneggiare la tradizione aggirando il prevedibile e il già visto, dopotutto la sensazione di déjà-vu è di regola negli horror, ma quando si riesce ad annullarla (almeno in gran parte) allora si può parlare di successo. Proprio perché da un'idea semplice ma tuttavia geniale nasce un film godibile e spaventoso, un film scorrevole e ben strutturato.
Un film in cui viene imbastita una storia inquietante e interessante, sviluppata attraverso dettagli e flashback che hanno il pregio di non farla troppo lunga e andare dritti al punto. In tal senso bella è l'idea di racchiudere praticamente tutto in tre soli personaggi (madre, figlio e figlia) e in due-tre location, come un b-movie degli anni '80 dove si badava al sodo e non si perdeva tempo in cose inutili. Alcuni dialoghi poi sono davvero intensi e non mancano situazioni divertenti e toccanti (a tal proposito è evidente l'impronta del sagace ma non infallibile James Wan, dato che ritroviamo molti degli elementi che caratterizzano i suoi film: primo su tutti lo humor e quella sorta di comicità che spezza la tensione, in questo caso affidati tutti al personaggio di Alexander Di Persia, mai visto prima e un po' piatto ma sufficiente, il fidanzato che in un classico film horror sarebbe il primo a non uscirne vivo o a darsela a gambe, e poi la casa, il riflesso primario della condizione di Sophie, una casa possente e severa esternamente, al cui interno tutto è cupo, in cui tutte le finestre sono oscurate da pesanti tendaggi in modo da non far passare la luce). Si trema, si salta e si sorride, talvolta, fino al finale (in parte prevedibile) che non spalanca come al solito, pur mantenendo aperta, una porta al sequel (che ci sarà tuttavia prossimamente al cinema). Se il film riesce comunque a creare una buona suggestione orrorifica, c'è da dire però che dal punto di vista narrativo è palesemente scarso. Si ha la sensazione infatti che manchi un collante tra le belle sequenze di paura e l'intreccio architettato per far quadrare il cerchio, che è molto esile e poco fantasioso, nonché a tratti anche un po' confuso. Tanto che si ha l'impressione che il team creativo abbia lavorato di fretta preoccupandosi poco dell'investitura narrativa, concentrando tutto l'impegno sulla coreografia delle scene di spavento. Quest'ultime fatte decisamente bene, giacché il regista cattura l'attenzione dello spettatore con un continuo gioco tra luce e buio, in cui l'importante è rendere imprevedibile l'azione e non mostrare troppo di quello che è strettamente necessario.
Certo, la sceneggiatura proprio non aiuta, anche perché seppur mantiene un ritmo dinamico e lineare, e seppur risulta curata nel dettaglio e fedele alle intenzioni degli autori, talvolta si prende qualche pausa di troppo. Inoltre essa non funziona perfettamente quando vuole spiegare l'antefatto (deboluccio) o le vere ragioni che stanno dietro all'odio di Diana. Limiti che comunque non impediscono a Lights Out di ritagliarsi un posticino piccolo piccolo nell'odierna scena dell'horror a stelle e strisce (ma non solo). Infatti a tratti fa sinceramente paura e questo in fondo è quanto ci si aspetta da un film del genere, pur con tutti i limiti di un progetto la cui idea principale, benché azzeccata, si basa su 160 secondi apparsi molti anni fa su YouTube. Lights Out difatti, è un horror che poggia su una delle più grandi fragilità dell'essere umano (il buio) e ha il merito di farlo non soltanto grazie a tecnologie avanzate ma partendo da un'idea semplice e davvero geniale, in una fase in cui le sceneggiature non brillano certo per innovazione narrativa. D'altronde l'horror dialoga con il thriller trovando un equilibrio convincente che trae la sua forza dai personaggi ben scritti, carismatici ed emotivamente interessanti. E in tal senso nel cast spicca per intensità la sempre brava Maria Bello, che veste i panni della madre di famiglia, credibile è invece Teresa Palmer, vista di recente in La battaglia di Hacksaw RidgeKnight of Cups. Comunque una piccola ma importante parte nel film (nelle sue fasi iniziali) l'ha anche Billy Burke, noto al grande pubblico per essere stato il papà di Bella nella saga di Twilight, ma non solo, era Miles Matheson in Revolution, serie in cui manco a farlo apposta a mancare nel mondo era l'elettricità, insomma la luce. E quindi una scenografia congeniale, dei caratteri rappresentati con intelligenza fanno dell'esordio (di allora) alla regia del regista svedese un film non certo brillantissimo per qualità tecnica ma ben calibrato con un finale per niente banale. Perché certo, Lights Out è acerbo, conosciamo chi ci sta minacciando e quali sono i suoi "trucchi", ciò nonostante l'astuto gioco delle luci aiuta a mantenere alta la tensione, ad essere sempre sul chi va là. Il film infatti, che esplora vari livelli di oscurità, visibile e psicologica, farà sì che a fine visione (di visionare un film da vedere se volete un po' di brivido) cercherete una fonte di luce accesa, e che nel frattempo tuttavia non vi venga in mente di spegnere la luce. Voto: 7