domenica 9 giugno 2019

La storia della principessa splendente (2013)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 17/10/2018 Qui - Ispirato ad uno dei più popolari racconti giapponesi, animato dal celebre (purtroppo ora compianto) Isao Takahata e candidato all'Oscar come miglior film d'animazione nel 2014, La storia della Principessa Splendente è una pellicola (del 2013) tecnicamente, e non solo, molto bella, anche perché grande poesia e attenzione al dettaglio caratterizzano quest'opera, un'opera notevole e quindi profonda, ma che non assurge al capolavoro. Mi sembra esagerata infatti la valutazione della critica verso questo bel film, definito in pratica un capolavoro. Alla regia c'è in effetti un mito, Isao Takahata dello Studio Ghibli appunto, ma non è che qualunque cosa faccia sia automaticamente perfetto (anzi, l'unico che ho visto da lui diretti, Pom Poko, non è tra i miei preferiti in assoluto). Qui difatti, anche se la suddetta è bella e si segue, anche in un film così lungo (anche il finale è molto bello), abbiamo una storia tradizionale, abbastanza semplice e molto dilatata, fino quasi a dare per questo un senso di pesantezza. Certo, tecnicamente è eccelso, anche grazie a un disegno primitivo e dai colori molto tenui davvero affascinanti, ma ha qualche pecca che non si può negare. I tempi lo rendono un film adulto, totalmente inadatto ai più piccoli e a chi cerca film briosi e d'azione, non necessariamente un difetto anche se la lunghezza eccessiva ha provocato qualche momento di noia anche in me. La storia in sé è poi lineare e prevedibile, soprattutto nella seconda parte, anche se anche il primo tempo, nel suo voler raccontare bene i personaggi, risulta un po' lento e alcune azioni e reticenze della protagonista in generale potrebbero non essere del tutto colte. E quindi sicuramente un buonissimo lavoro, un bel film (un sette pieno certamente), però non un capolavoro vero e proprio. In tal senso, anche se Big Hero 6 non era affatto un capolavoro (solo piccolo capolavoro), quest'ultimo ha meritato di vincere l'Oscar, perché io lì c'ho lasciato un pezzo di cuore, qui no. E tuttavia è impossibile non parlare benissimo di questo film.
Un film che, frutto del lavoro di decenni del disegnatore Isao Takahata (che si è spento alla veneranda età di 83 anni ad Aprile scorso), co-fondatore dello Studio Ghibli con Hayao Miyazaki, è la trasposizione visuale di una delle più antiche fiabe giapponesi, la storia di una principessa che dal mondo della luna viene esiliata sulla terra, reincarnandosi in una neonata che rapidamente cresce fino a diventare la donna più bella e desiderata del paese. Il film infatti, che narra di un povero tagliatore di bambù che un giorno, vedendo spuntare rapidamente dal terreno una gemma luminosa (al suo interno, una sorta di minuscola fata addormentata che poi si trasformerà in una neonata) la porta a casa dalla moglie (la coppia non ha figli), racconta una storia intima (risalente al X secolo), una fiaba (che attinge alla tradizione folk giapponesedi mistero, fiaba (Taketori Monogatari, letteralmente "Il racconto di un tagliabambù") che viene riletta dal regista come riflessione sulla bellezza del vivere e del nostro mondo, bellezza palese o nascosta a seconda della capacità del singolo di saperla cogliere. Ne è di certo capace la principessina protagonista del film, una bambina (che cresce molto più velocemente dei suoi coetanei) non di questo mondo ma innamorata di esso, dei suoi paesaggi naturali, delle emozioni regalate da semplici ma importanti rapporti umani. Sentimenti puri che, contaminati da bramosie nefaste di ricchezza e potere, anticamere di un egoismo distruttore e di lotte competitive, distruggono la condizione primigenia di armonia uomo-uomo e uomo-natura (ed il passaggio dalla campagna alla città è un momento emblematico di questa perdita dell'innocenza, infatti avviene nel momento in cui la principessa smette di essere infante e cresce improvvisamente diventando una giovane donna). Credendo difatti che alla bambina serva una nobile educazione ed abbia un grande matrimonio nella capitale, il tagliatore di bambù (che nel bosco trova un tronco pieno d'oro) la porta in città, ma la Principessa Splendente, questo il nome che le viene dato da un dignitario di corte, in realtà rimpiange la casa nel bosco, la natura e i vecchi compagni di giochi.
Essa infatti rimpiange la libertà della natura, ma soprattutto gli amici che le hanno fatto provare la semplice felicità: una compagnia totalmente disinteressata, lontana anche dai comprensibili, ma limitati, desideri di gloria del padre, dal formalismo degli istitutori, dalla mancanza di libertà dovuta al rango sociale. Il desiderio della Principessa Splendente tuttavia è destinato a rimanere tale, anche se la sua dolcezza, la sua bellezza e l'intensità della sua richiesta non lasceranno indifferente anche lo spettatore. Spettatore che per questo, non bastasse che per gioco forza la giovane principessa dovrà piegarsi a regole e costumi che non sente propri, finendo per diventare sempre più triste ed introversa, fino ad un epilogo che farà luce sulle sue misteriose origini, sarà portato a pensare che La Storia della Principessa Splendente faccia leva sull'alone di mistero che circonda Kaguya, eppure i motivi della sua venuta sulla Terra non vengono mai esplicitati. Il vero motore della pellicola risiede in altri punti chiave, che emergono dalla narrazione: primo fra tutti, come si accennava sopra, la leggenda popolare da cui è tratto il film. Il Giappone è una terra ricca di folklore, che attinge a piene mani da un sottobosco animistico (tema ripreso spesso nei film di Miyazaki). La natura impersona un ruolo rilevante nella pellicola di Takahata, sembra crescere di pari passo con la principessa e cambiare con lei, al ritmo dei cicli stagionali. Quando Kaguya viene "confinata" nel palazzo prova una nostalgia struggente verso i monti dove ha vissuto (come una novella Heidi, protagonista del popolare cartone diretto proprio da Takahata). Le catene montuose, non a caso, acquistano un'importanza maggiore al momento della perdita, poiché rappresentano la sua innocenza e spensieratezza ormai lontane. E' come se la linfa vitale della protagonista prendesse nutrimento e forza dagli alberi, dai fiori, dai frutti. La delicata estetica giapponese pervade, quindi, lo spirito del film, ma non mancano i momenti umoristici grazie all'intervento di personaggi-macchiette. Questi ultimi contribuiscono a stemperare, in alcune scene, il tono malinconico della storia che, altrimenti, risulterebbe eccessivamente drammatico.
I personaggi più buffi sono, senza dubbio, i pretendenti di Kaguya: come una Turandot giapponese, ella li pone di fronte a prove pressoché impossibili per averla in sposa, in modo che non possano mai realmente aspirare alla sua mano. Ne La Storia della Principessa Splendente inoltre, viene garbatamente preso di mira il rigore tipico dell'etichetta giapponese, in favore di un atteggiamento più spontaneo ed autentico, contrapposizione su cui si poggia la narrazione (anche se è necessario precisare che il film è ambientato non ai giorni odierni, bensì in una non precisata epoca del passato, dove vigeva un'attenzione maggiore ai dettami della tradizione e alle sue regole ferree). Questa pellicola, quindi, conta anche il pregio di far conoscere alcuni aspetti della cultura nipponica. Come altri lavori diretti da Isao Takahata (si veda ad esempio La tomba delle lucciole, un film che vedrò a giorni e di cui ne scriverò prossimamente), anche questo film non è particolarmente adatto, nonostante l'animazione, al pubblico dei più piccoli. Il linguaggio forbito (le immagini non filtrate) e le questioni trattate, sebbene conferiscano alla pellicola indubbi meriti, risultano infatti troppo faticosi per un bambino, lo stesso discorso valga per l'eccessiva durata. A proposito dell'animazione, chi è abituato ai film dello Studio Ghibli, alla definizione delle figure, al tratto, all'uso dei colori, qui rimane spiazzato dalla tecnica quasi impressionista del regista e disegnatore: pennellate appena accennate, uso intensivo dell'acquarello e del carboncino, sfondi esigui, una tavolozza di colori che evita accuratamente i primari. Ciò nonostante, l'impatto visivo (coadiuvato anche dalle splendide musiche, che vanno da movimenti classici di ampio respiro a motivetti orecchiabili tipici dell'infanzia, a canzoni struggenti) de La storia della principessa splendente è assolutamente impressionante, in certi punti portando in secondo piano anche la storia, che nella sua semplicità (la ragazza che non sopporta gli artifici della vita di corte e per questo fa ai pretendenti richieste impossibili da soddisfare) si discosta anche dalla fiaba tradizionale per incentrarsi maggiormente sul sentimento di nostalgia.
Sempre a proposito dell'animazione, occorre specificare che il regista riesce a compiere anche una piccola grande rivoluzione: il film, infatti, è stato realizzato con una tecnica peculiare, con la quale si ha la sensazione di vedere sullo schermo dei movimenti reali da parte dei personaggi animati. Le animazioni difatti sono create totalmente a mano fotogramma per fotogramma, di qui l'impressione di un tratto grezzo ed instabile che conferisce una continua mobilità ai personaggi, disancorandoli dal tipico stile giapponese degli anime in cui i personaggi che non compiono azioni tendono a rimanere completamente fermi sullo schermo. Questo dinamismo continuo ben si adatta allo stile fluido di cui sono complemento i fondali dipinti in modo a volte abbozzato ed alcune fulminee scene di movimento, fra cui quella che è probabilmente la vetta stilistica del film: la breve scena di fuga della principessa dal palazzo per fare ritorno alla casa nei boschi, in cui paesaggi e personaggio si riducono a svolazzi di grafite catturati dal foglio di carta e ad un caleidoscopio di colori frullati insieme a creare immagini quasi astratte. Insomma qualcosa di veramente sorprendente, non a caso è proprio grazie a questa tecnica che il pubblico ha l'opportunità di vivere un'esperienza ricca e di forte impatto visivo. E poi comunque per il resto, la poetica propria delle opere Ghibli qui è più viva che mai: leggerezza del tocco ma profondità nei temi trattati, commento musicale eccezionale, sensibilità ecologista e sincretismo religioso, infine occasionale auto-citazionismo (il suddetto stile di disegno accostabile all'opera del '99 I miei vicini Yamada, solo ultimamente distribuito in home video, l'episodio finale della discesa del popolo celeste che richiama la sfilata dei demoni in Pom Poko e in un certo modo anche quello in La canzone del mare). Insomma tutto bello e "innovativo" per certi versi, ma personalmente non del tutto eccezionale, perché anche se ancora una volta doppiaggio e adattamento sono realizzati con grandissima cura, una ricerca quasi ossessiva di un linguaggio arcaico e formale forse eccessivo, seppur giustificato dal setting storico e culturale del film, non aiuta (come alcune lungaggini nella parte centrale della vicenda). Che, per il resto, è un'opera matura, densa di simbolismi e introspezioni, caratterizzata da uno stile d'animazione unico che, però, può anche non piacere. Ad ogni modo, è questa un'opera meritevole di essere visionata e "vissuta" da ogni appassionato di buon cinema. Voto: 7+