Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 10/10/2018 Qui - Ho sempre seguito tutti gli sport, specialmente in televisione, ma tra quelli che ho sempre seguito meno c'è il tennis, tanto che prima di vedere Borg McEnroe, film del 2017 diretto da Janus Metz, non ero a conoscenza né dei personaggi/atleti (solo piccole informazioni), né della loro rivalità e né della partita che consacrò entrambi alla leggenda. Soprattutto non sapevo cosa aspettarmi, e in tal senso il film non delude le aspettative, tuttavia il film, che sia sotto l'aspetto della ricostruzione sportiva sia per una sceneggiatura debolissima sconfina spesso nel patetico, proprio non m'è piaciuto. Colpe di sceneggiatura, prima di tutto, ma anche la regia del danese Janus Metz appare alquanto impersonale, frettolosa, diligente solo a mettere insieme scene che facciano piacere alla vista, fregandosene dell'onestà del racconto. Prendendo infatti spunto da una tra le più famose e celebrate rivalità sportive, il regista firma un film molto semplice e lineare, mirato a ricostruire le gesta degli atleti ma anche a fornire una caratterizzazione emotiva più profonda e toccante, che indaghi la passione nutrita dai due rivali. Borg McEnroe si muove così in maniera prevedibile attraverso l'ormai consolidato climax sportivo mirato a focalizzare l'attenzione su un'unica partita che diventa cardine per la carriera e la vita dei due atleti. Romanzando di gran lunga i fatti raccontati e abbondando quasi sempre con la retorica, il film diverte e intrattiene senza tuttavia provare mai a suggerire un'idea di cinema personale. Egli difatti procede con il pilota automatico per l'intera durata del suo lavoro sapendo di poter contare sul fascino sportivo della sfida raccontata e sulle personalità dei suoi protagonisti, antitetiche (glaciale e controllato uno, sopra le righe e irascibile l'altro) e ben incarnate dai due interpreti, aderenti ai loro personaggi dal punto di vista fisico e nel temperamento complessivo. Peccato che il tutto venga solo abbozzato e mai trattato con la dovuta cura, soprattutto i momenti più caldi (i caratteri "opposti" ma comunque simili dei due, il passato di uno, la ferita affettiva dell'altro) che rimangono così sempre ingabbiati dentro logiche narrative più esili seppur funzionali alla ricostruzione drammaturgica.
Questo perché il film di Janus Metz Pedersen, autore della terza puntata della non eccelsa seconda stagione di True Detective e qui all'esordio di un lungometraggio per il cinema, ci tiene tantissimo a riprodurre con una fedeltà maniacale l'atmosfera a cavallo tra gli anni '70 e '80 e il match che tenne in apprensione milioni di appassionati di tennis. Infatti dalla fotografia virata ocra alla ricostruzione certosina di costumi e accessori dell'epoca, Borg McEnroe si contraddistingue sotto il punto di vista formale, riuscendo a restituire una fedeltà nella messa in scena dell'incontro tra Bjorn Borg e John McEnroe che documenta con incredibile lucidità un evento cardine di quegli anni (la rivalità tra i due all'alba della finale di Wimbledon del 1980). Anche i due attori chiamati a vestire i panni dei divi del tennis fanno un lavoro esemplare di mimesi: Sverrir Gudnason lavora moltissimo sulla sottrazione restituendo efficacemente l'algida figura di Borg, il suo sguardo penetrante e glaciale, le spalle inarcate, ma ancora meglio Shia LaBeouf nel dar corpo a McEnroe, alle sue nevrosi e ai suoi scatti d'ira, che paradossalmente vanno a ricalcare proprio la figura pubblica di LaBeouf, come se persona e personaggio andassero a coincidere perfettamente, e questo fa stare simpatico lui ben più del suo rivale. Peccato che nella pellicola non vada sottovalutato un problema. È tanto attento alla forma e alla fedeltà all'epoca e all'evento che dimentica di emozionare e appassionare lo spettatore. Il film è freddo come il suo protagonista, una descrizione tanto certosina quanto distaccata che parla, fondamentalmente, agli appassionati di tennis che saranno, appunto, impegnati a decantare la ricostruzione dell'incontro e la somiglianza fisica e gestuale degli attori. È evidente che in fase di scrittura lo sceneggiatore si sia reso conto che stava andando incontro al manierismo documentaristico, per questo motivo ricorre all'espediente dei flashback per raccontare l'infanzia e l'adolescenza dei due tennisti e rendere più empatica la vicenda. L'operazione non gli riesce del tutto e, paradossalmente, la parte migliore anche sotto il punto di vista partecipativo è il lungo terzo atto del film, quello dell'incontro tra Borg e McEnroe, mentre la descrizione del passato dei protagonisti appare eccessivamente didascalica e poco interessante.
La storia infatti, che racconta appunto di una delle partite più belle della storia del tennis, quella che vide contrapposti due atleti (glaciale il primo, impetuoso il secondo) che si proietteranno in seguito tra le stelle del firmamento sportivo, giacché i loro gli stili diversi e l'imprevedibilità dei risultati, resero il confronto ancora più serrato e avvincente, ha continui blocchi di ritmo e sembra scritta in tutta fretta: molte le mancanze che si riscontrano durante la visione. I personaggi di "contorno", poi, che invece dovrebbero essere pedine fondamentali per la struttura e la crescita di Borg e McEnroe (il padre padrone di McEnroe ed i genitori di Borg così come l'allenatore dell'asso svedese, interpretato da un sempre bravo Stellan Skarsgard), qui sono ridotti a mera comparsa, trattati in una maniera che definire superficiale è poco. Stessa sorte per la futura sposa di Borg (interpretata da una spenta Tuva Novotny, una specie di sosia di Noomi Rapace), relegata a tre battute tre in scena mutando completamente la figura che si percepisce invece più che rilevante e tramutandola in "manipolatrice". Ed è quindi un peccato che il film sprechi il suo potenziale, perché poteva essere fantastica questa occasione, e l'aver saputo scegliere due interpreti perfetti faceva ben sperare: come detto Sverrir Gudnason è identico al vero Borg, Shia LaBeouf semplicemente fantastico (davvero ottimo, e probabilmente parte della follia del personaggio che interpreta è autentica farina del suo sacco) nel rendere l'istrionismo folle e nervoso che coglie l'americano McEnroe nel momento di affrontare una sfida in cui tutto, tranne la tecnica di gioco, pare essergli contrastante e sfavorevole. Ma il film, scritto in modo elementare e banale, prevedibile e semplificativo, spreca ogni possibilità innanzi tutto sbilanciandosi in modo sperequato sul campione svedese, l'uomo si ghiaccio che il film stolto rende una macchina ubbidiente al business e alla fidanzata, dunque un automa programmato, ma senza carattere, salvo poi aggiustare tardivamente il tiro nel finale patetico tutto bacini e bacetti svenevoli in aeroporto, tra i due campioni acerrimi rivali, divenuti amici grazie ad un gesto di intesa.
E se la sfida finale di Wimbledon viene affrontata come un dettaglio veloce e di scarsa rilevanza (che peccato, che spreco), molto più tempo gli sceneggiatori sciupano tempo a parlarci dell'infanzia (guarda caso un po' problematica) dei due, anzi di Borg (infanzia interpretata qui dal figlio del tennista), visto che si parla quasi solo di lui, coinvolgendolo da adulto anche in siparietti sdolcinati e ruffiani come quello del caffè al bar ad inizio film. Non bastasse che si arrivi a questo finale senza alcun sussulto, quasi con noia, senza aver avuto una visione della parabola tennista di questi due fenomeni. L'unica cosa da salvare sono i titoli di coda con le immagini vere dei due tennisti, solo li sono arrivate le emozioni vere per chi ha vissuto quegli anni. Per chi invece quegli anni non li ha vissuti, questo film non offre assolutamente nulla. Proprio perché in questo film, comunque bello e di valore, a mancare è soprattutto l'anima, l'approfondimento e il coinvolgimento. Tanto che nemmeno la riproduzione pressoché perfetta degli eventi, e la somiglianza degli attori protagonisti, riesce a creare un'illusione cinematografica che vada oltre la semplice cronaca. E in tal senso, c'è da chiedersi lecitamente se, sceneggiatura alla mano, e viste le suddette mancanze, non sarebbe stato meglio realizzare col soggetto (che non riesce a bilanciare l'intento documentativo con la partecipazione fictional) una serie tv, serialità che avrebbe di certo garantito al prodotto un timing dignitoso per investigare e scandagliare questa tribù di anime inquiete, sondando con maggiore impatto le varie "maschere" in scena (oppure direttamente un documentario). E quindi non solo Borg McEnroe rimanda a data da destinarsi l'incontro felice tra cinema e tennis (accadrà forse con La battaglia dei sessi prossimo alla visione?) ma anche tra Janus Metz e la Storia, quest'opera infatti rimedia a malapena la sufficienza per via dell'impegno profuso di cast e crew ma si "guadagna", spudoratamente, una piena insufficienza sotto il punto di vista dello script. Voto: 5