giovedì 31 ottobre 2019

Movies for Halloween: La casa delle bambole - Ghostland (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 31/10/2019 Qui
Tema e genere: Pascal Laugier firma una pellicola che esplora la dicotomia tra reale e finzione. Una pellicola che va al di là del suo essere un film dell'orrore. Qui il cliché trito e ritrito della bambola horror acquisisce un senso nuovo e diverso. Vedere per credere.
Trama: Pauline e le sue figlie adolescenti, Beth e Vera, ricevono in eredità una vecchia villa piena di cimeli e bambole antiche che rendono l'atmosfera casalinga tetra e inquietante. Durante la notte, due intrusi penetrano nella casa e prendono in ostaggio le ragazze. Tuttavia, ridotte in fin di vita riescono a salvarsi. Sedici anni dopo, Beth, diventata una scrittrice di successo ritorna in quella casa (dove abitano ora la madre e la sorella) per assicurarsi che tutto vada bene. Sembrerebbe di sì, pian piano però Beth scopre che le cose non sono propri così come appaiono e presto prenderà contatto con una terribile realtà.
Recensione: Ad Halloween si sa gli horror vanno per la maggiore, è consuetudine poi che si debba vedere uno a tema per la notte delle streghe (ambientato in quel giorno), ma ho già visto negli ultimi mesi l'undicesimo capitolo della saga di Michael Myers (qui la recensione) ed anche quella specie di sequel/spin-off di Piccoli Brividi (qui la recensione), ho optato quindi sì per un horror, però per uno non a tema. Ho optato e visto infatti (a dispetto del titolo internazionale e non) un horror (portato in Italia da Midnight Factory, l'etichetta tutta italiana specializzata proprio nel settore horror) genuino e senza inutili fronzoli paranormali (comunque perfetto per Halloween, oltretutto riuscito e di buon livello). La casa delle bambole (il "Movies for Halloween" di quest'anno, qui il precedente) è difatti un film molto "fisico" ed anche psicologico. In Ghostland ci sono tanti scontri, tante urla, Jumpscare quanto bastano e rumori sinistri a suggerirti che il mostro è proprio alle tue spalle. E' anche un film molto claustrofobico, perché ad esclusione di alcune scene la maggior parte del set è proprio all'interno di una casa resa inquietante dalle centinaia di occhi che continuamente sembrano osservare le protagoniste della pellicola. Una pellicola che per essere un horror ha un inizio piuttosto scolastico, ma che poi prende altre strade e si rivela tutt'altro. Il francese Pascal Laugier è l'autore di un horror di cui si è parlato tanto e continua a far rumore anche a distanza di un decennio, quel Martyrs (visto tuttavia solamente pochissimo tempo fa, qui la recensione) che metteva in scena sadicamente la voracità delle generazioni più anziane nello sfruttare le carni e le menti dei più giovani. Ma ecco che dopo aver diretto nel 2012 il più convenzionale thriller drammatico I bambini di Cold Rock, egli torni a girare un horror. E sempre nel campo dello sfruttamento di giovani corpi (ancora una volta due corpi femminili, in questo caso due sorelle) ci si muove: solo che in La casa delle bambole - Ghostland il terreno su cui si sceglie di giocare è quello degli stereotipi del cinema e della cultura orrorifica americana, a partire dal continuo riferimento a H. P. Lovecraft. Beth, infatti, che sviene alla sola vista del sangue, vorrebbe diventare una scrittrice horror, Vera, invece, è più radicata nella realtà (da qui il suo nome), ha un ragazzo, delle normali aspirazioni per il suo futuro e un innato senso di ribellione nei confronti della madre, da lei accusata di preferire l'altra sorella.

mercoledì 30 ottobre 2019

La mélodie (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/10/2019 Qui
Tema e genere: La storia di un riscatto possibile attraverso la passione per la musica.
Trama: Simon, violinista in attesa di una svolta nella sua carriera, accetta di dare lezioni di violino in una scuola problematica della periferia francese.
Recensione: Primo lungometraggio di Rachid HamiLa mélodie è un film francese presentato fuori concorso durante la Mostra di Venezia nel 2017. Il regista presenta un tema già più volte esplorato dal cinema, sia sul versante dell'insegnamento che sullo specifico musicale (basti pensare a Les Choristes o a La famiglia Belier), indagando il classico rapporto tra adulti e ragazzi, tra insegnanti e studenti, tra maestri e apprendisti. Sorta di favola educativa al tempo stesso contemporanea (il disagio dei ragazzi e il loro retroterra è realistico) e dalla struttura classica, La mélodie si muove con una certa prevedibilità, alternando a ostacoli e sconfitte, momenti di commovente comunione e unità tra genitori e insegnanti, che imparano a conoscersi e si uniscono per offrire a quei ragazzi un'opportunità mai presa in considerazione e per farli arrivare ben preparati alla serata d'esibizione. Il film di Hami non è certo un capolavoro, ma la vicenda, per molti versi scontata, non ne sminuisce il valore e la potenza. Con semplicità e senza troppe pretese (e sicuramente rivolto a chi è altrettanto in cerca di una storia semplice e non di ricercatezze e sofismi artistici), il regista si accosta alla narrazione e al tema classico (l'influenza dei maestri sugli allievi, ma anche la passione che si rinnova negli insegnanti attraverso di loro) con dialoghi improvvisati o situazioni genuine e immagini delicate, sempre tese a mostrare i dettagli dell'universo musicale (violini, spartiti, corde, archetti) così come tensione, rabbia o gioia e stupore nei volti dei ragazzi. Il racconto nella sua linearità e totale assenza di colpi di scena o inaspettate svolte drammatiche esalta con semplicità tutto ciò che merita di essere sottolineato: il desiderio di un gruppo di giovani emarginati di riuscire a commuovere spettatore e genitori attraverso la loro musica, la scoperta di un vero talento in una realtà periferica dove mai ti sogneresti di andare a scovare un'artista, la rinascita di un uomo capace, attraverso il suo ruolo di maestro, di risolvere i suoi problemi personali riallacciando il rapporto con la figlia e la madre e donando un senso nuovo al suo mestiere (ed è apprezzabile la prova nei panni del protagonista di Kad Merad, in genere noto per i suoi ruoli comici). Le ambientazioni, i personaggi, il tessuto multiculturale e sociale esplorato dalla relazione tra gli studenti e gli insegnanti si fa così carico di sentimento e ci conduce verso un finale che restituisce a protagonisti e spettatori speranza e profonda emozione. Con un messaggio così forte e vitale non si può che passare sopra qualche perdonabile limite e apprezzare la delicatezza di una storia assolutamente positiva, ma anche una sobrietà che evita strade patetiche che sarebbe stato facile percorrere.

Dopo la guerra (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/10/2019 Qui
Tema e genere: È una riflessione sulle colpe e le violenze di un periodo storico recente, difficile da dimenticare e che condizionerà per sempre le vite di una famiglia diventata vittima di se stessa, costretta a condividere il dolore privato con il giudizio pubblico. Il film è liberamente ispirato alle storie di alcuni condannati degli anni di piombo italiani, riparati in Francia sotto la dottrina Mitterrand (François), tra cui Paolo Persichetti e Cesare Battisti.
Trama: Per evitare di essere estradato in Italia, Marco (un ex terrorista non pentito rifugiato in Francia) cerca di scappare in Nicaragua con la figlia. Il destino risolverà per tutti la quanto mai difficile situazione, sua e della famiglia.
Recensione: Presentato a Cannes nel 2017, Dopo la guerra è il primo film di finzione di Annarita Zambrano. Un film non facile e coraggioso (ispirato alla tragica vicenda di Marco Biagi ucciso nel 2002 dalle Brigate Rosse) perché si addentra in una delle ferite ancora sanguinanti della storia italiana, quella del terrorismo di estrema sinistra o destra che ha insanguinato il nostro Paese. La regista, però, sceglie un taglio particolare. Il film, infatti, non scava nelle ragioni sociopolitiche che portarono a fine anni '60 decine di persone a intraprendere quella strada, ma si sofferma sulle conseguenze che le loro azioni hanno causato sulle persone a loro vicine. Nella parte italiana, infatti, il film si focalizza sulle figure di Anna (Barbora Bobulova, per una volta davvero brava), sorella di Marco (Giuseppe Battiston, più a suo agio in altre parti ma comunque anche qui molto bravo), sul marito Riccardo (Fabrizio Ferracane), un magistrato di primo piano nazionale, e sulla madre Teresa (Elisabetta Piccolomini). Anche loro vengono investite direttamente dall'attenzione mediatica che si riaccende su Marco. È il maledetto passato che ritorna e le loro vite ne vengono sconvolte nei gesti quotidiani. Sono anche loro vittime e, agli occhi dell'opinione pubblica, colpevoli per il fatto di essere parenti di un terrorista. Nella parte francese tutto ruota attorno al rapporto tra Marco e la figlia Viola (Charlotte Cétaire) che viene letteralmente strappata dalla sua vita, dalle sue amicizie e passioni. Un rapimento vero e proprio che si conclude in un casolare abbandonato dove Marco aspetta i documenti per scappare e dove incontrerà una giornalista per un'intervista in cui ribadisce le folli ragioni (senza ombra di pentimento) che lo hanno portato sulla strada del terrorismo. Il film è certamente intenso e ricco di spunti. Dove fatica un po' è proprio nell'amalgamare la parte italiana (più convincente) con quella francese, tanto che il film sembra veramente troppo spaccato in due parti. Rimane comunque un interessante esempio di cinema di impegno civile, da parte di una regista che ha dimostrato di avere coraggio e qualità.

Bangla (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/10/2019 Qui
Tema e genere: Partendo da un approccio fortemente autobiografico, il regista racconta le difficoltà dell'amore all'interno di un particolare contesto familiare, religioso e culturale. E lo fa con una commedia simpaticissima nella sua semplicità.
Trama: Nel multietnico quartiere romano di Torpignattara vive Phaim, un ventenne figlio di una coppia di bengalesi. Come tanti altri figli di immigrati, Phaim vive le mille contraddizioni delle seconde generazioni alle prese con un complicato processo di integrazione culturale. L'incontro con una ragazza di origini italiane creerà in lui difficoltà fino a quel momento del tutto inattese.
Recensione: Il tema dell'immigrazione straniera è in tempi recenti, molto dibattuto sfiorando toni drammatici se utilizzato per fini di speculazione politica italiana, ma se a raccontare una storia di integrazione di un giovane nato in Italia di origine bengalese è proprio il protagonista e il realizzatore del film ovvero il Phaim (Bhuiyan di cognome) di cui si parla allora i toni si stemperano diventando addirittura ironici con punte di comicità involontaria sia nel linguaggio parlato che nei comportamenti dei personaggi. Allora tutto il dramma degli immigrati assume un differente punto di vista che il giovane regista (già svezzato fra documentari e la passione folle per il cinema, concretizzatasi in questa pellicola distribuita da Fandango) ci propone in questa storia semplice di un amore tra lui indiano di colore cappuccino, e una lei altrettanto giovane, ma italiana, della periferia romana abitante nella stessa Torpignattara dove risiede con la sua tradizionalissima famiglia, il ragazzo bangla. Dunque un melting pot tra centro e periferia del mondo tra chi nasce immigrato e chi nasce "periferico" essendo cittadino italiano titolato. Un divertente miscuglio nel film, diciamo recitato, in un dialetto romanesco alla "Bangla" quasi a dire coatto, che conferisce un tono forse pasoliniano di borgata o forse il perfetto opposto di brutti sporchi e cattivi di memoria Scoliana. Infatti tutti i personaggi da Phaim ad Asia la neo fidanzatina, agli amici e familiari e via dicendo sono pulitini bellini e soprattutto buoni e simpatici. Forse il vero riferimento cinefilo del giovane regista indiano Phaim è il Moretti alias Michele di Ecce bombo o meglio il Nanni di Caro diario (tuttavia il riferimento principale spetta a The Big Sick, ugualmente simpatico). Tutto questo confezionato in una semplice e veloce narrazione di scenette divertenti e adatte ad un pubblico consono all'età dei protagonisti, forse più autentici dei giovani di Moccia e Muccino. E così si ride e si sorride delle convinzioni del poco più che ventenne che si affaccia al mondo, grazie alla capacità dell'autore di sdrammatizzare argomenti così importanti che possono essere fonte di separazione fra differenti culture, come nel caso di scelte imposte da tradizione e famiglia, sempre riviste con una dose di leggerezza che pervade tutto il film.

Un re allo sbando (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/10/2019 Qui
Tema e genere: Commedia surrealista che racconta l'Odissea in chiave documentaristica di un re belga il cui stato vive una profonda crisi d'identità.
Trama: Mentre è in visita in Turchia, dove dovrebbe girare un documentario per rilanciare la sua immagine, il re del Belgio viene a sapere che in Patria si rischia la guerra civile e decide di rientrare infrangendo ogni protocollo.
Recensione: Presentato al Festival di Venezia 2016 casualmente a pochi giorni dal tentato colpo di Stato in Turchia, la commedia travestita da documentario (o meglio mockumentary) di Peter Brosens e Jessica Hope Woodworth riesce nella difficile impresa di unire in un road movie dinamico e incalzante una notevole comicità e un'altrettanta capacità di riflessione. I personaggi della corte belga, ritratti con un gusto per il surreale che non impedisce di creare una grande empatia, quello del documentarista d'assalto semi-fallito che si lascia ingaggiare per il rilancio di immagine di un sovrano dall'aria triste e poi non perde l'occasione di dare una sterzata imprevista al suo lavoro su commissione, così come l'ex comandante militare dal grilletto facile e i paesani dal cuore d'oro: sono solo alcuni dei caratteri, sempre ai limiti dell'eccesso, che costellano un racconto decisamente dinamico. Le disavventure del sovrano che, deciso a tornare in patria per evitare la scissione della Vallonia, sfida sia la tempesta solare che ha messo fuori gioco telefonini e aerei che le autorità turche che rifiutano di fargli fare il viaggio via terra, sono l'occasione per decostruire la freddezza del protagonista, smontare le convenzioni della sua "squadra" e per ridare a quest'uomo solitario e un po' triste la voglia di agire ed essere felice. Nel frattempo il viaggio, spassoso e surreale, consente ai due autori di affrontare le contraddizioni di un'Europa tutt'altro che unita, sfiorando con leggerezza, ma non senza serietà le ferite aperte dei paesi balcanici, ma senza tralasciare di lanciare pesanti frecciate anche agli stati "centrali", che sono incapaci di trovare un punto di incontro persino al loro interno. E insomma film inaspettato e godibile, che inoltre regala, sul filo del rasoio, anche momenti di verità e commozione, momenti che elevano il film, un film decisamente riuscito.

The Spectacular Now (2013)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/10/2019 Qui
Tema e genere: Commedia di formazione basata sull'omonimo romanzo di Tim Tharp, pubblicato nel 2008.
Trama: Sutter Kelly (Miles Teller) non è quello che si dice uno studente modello. All'ultimo anno di liceo, ama vivere al momento, godersi il divertimento e non ha ancora un piano per il college. Un giorno però si imbatte in Aimee (Shailene Woodley), una studentessa introversa a cui si propone di insegnare a vivere a modo suo. Quando il loro rapporto si intensifica, i confini tra giusto e sbagliato, amicizia e amore, salvezza e corruzione diventeranno sempre più confusi.
RecensioneThe Spectacular Now (arrivato in Italia stranamente in ritardo) è uno dei molti film esistenziali sul passaggio dal diploma di maturità a ciò che viene "dopo", eppure davvero piacevole è costui film nel rivisitare un argomento assai spremuto. La pellicola, questa pellicola indipendente infatti (vincitore al Sundance), che tratta di una piacevole e garbata storia d'amore tra due giovanissimi compagni di scuola, nobilitata da un cast di un certo rilievo (c'è anche Brie Larson), è leggera sì, ma di contenuto, incentrata più seriamente di quanto voglia apparire su una maturazione consapevole di un adolescente che trova nella spensieratezza e nella comunicatività lo strumento efficace e concreto per lasciarsi alle spalle drammi e delusioni di una vita fatta di quotidianità e piccole meschinerie. E così questo film, che non è un dramma (lo sfiora solo), con l'abile sceneggiatura di Scott Neustadter e Michael H. Weber, riesce a toccare molte delle problematiche adolescenziali. La narrazione si mantiene difatti commedia (una di quelle che sa far temere il peggio), nonostante qualche situazione complicata (ma niente "borderline"), grazie alla sagacia di James Ponsoldt (no, non posso credere sia lo stesso regista del pessimo The Circle) e a una godibile struttura scorrevole e convincente. Non si esagera ma si parla il linguaggio dei ragazzi con la loro stessa frivolezza mista a una filosofia dalle prospettive ampie di chi ha davanti una vita intera ma pochissimo tempo per decidere. I pregi di The Spectacular Now stanno infatti quasi tutti nella naturalezza del racconto, dei dialoghi, dei personaggi, degli attori. Non ci sono le carinerie e i bizzarri virtuosismi pop che ci si aspetta da un certo cinema indipendente americano, non c'è l'approccio un po' comico, sopra le righe, con personaggi dalla battuta sempre pronta, non ci sono avvenimenti melodrammatici o tragiche rivoluzioni. C'è solo la delicata, ammirevole leggerezza con cui vengono raccontate le vicende di due persone normali e di chi vive loro attorno, in una maniera semplice, naturale. In The Spectacular Now c'è semplicemente uno spaccato di vita adolescenziale, fra due ragazzi che si incontrano, si divertono, iniziano a conoscersi e vedono nascere una fortissima amicizia, o forse qualcosa di più. C'è magari qualche cliché, ma raccontato in quella maniera (ancora) così naturale che ti ricorda come in fondo la maggior parte dei cliché siano figli della realtà. C'è anche qualche fuga dal cliché, perché la ex di turno non è la solita stronza invidiosa e insopportabile, ma semplicemente una ragazza con cui le cose, oltre un certo punto, non hanno funzionato. C'è soprattutto un ritratto adorabile del rapporto fra due persone, che si evolve in maniera credibile, parte dal nulla, diventa "qualcosa" e lascia poi spazio agli inevitabili problemi, tirando fuori una svolta per molti versi annunciata ma, anche qui, messa in piedi con grande bravura e delicatezza. Per un bel po' non si capisce neanche troppo bene dove il film voglia andare a parare, ma lo si guarda comunque rapiti, perché troppo riuscita è la rappresentazione di quello spaccato di vita.

Io, Dio e Bin Laden (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/10/2019 Qui
Tema e genere: Frizzante commedia sulla vera storia di un vagabondo un po' pazzo.
Trama: La storia vera di Gary Faulkner, un ex detenuto disoccupato, che armato solamente di una spada comprata su un canale televisivo, si recò in Pakistan undici volte allo scopo di catturare Osama Bin Laden, spinto dalla convinzione che Dio in persona glielo avesse chiesto.
Recensione: Partendo dall'assunto che la storia, come si vede dai titoli di coda, è tragicomicamente vera (ma ormai lo si capisce sin dall'inizio: più certe storie sono assurde e meno sono frutto di immaginazione) la vicenda di Gary Faulkner potrebbe essere liquidata come quella di uno dei tanti pazzi che abitano il pianeta. Il mix con la comicità demenziale di Larry Charles (quello di Borat e Il dittatore: ma qui meno esplosivo, senza il "suo" Sacha Baron Cohen) riesce però a rendere interessante una vicenda altrimenti solo da brevi in cronaca. In particolare, Nicolas Cage (dopo anni di b movie uno peggio dell'altro) usa un piccolo film (peraltro sfortunato: negli Usa è uscito direttamente in home video: ormai di Bin Laden non si interessa più nessuno) per costruirsi un personaggio memorabile, survoltato e folle e certo più grande del film che lo ospita, che fa rimpiangere le tante occasioni perse da questo nipote di Francis Ford Coppola dalla abbondante filmografia ma anche dal talento discontinuo. Se si ride meno di quanto si dovrebbe (pur se le continue irruzioni di Dio, interpretato da Russell Brand, altro comico attivo nel demenziale), e se le "gesta" di Gary sono un po' troppo ripetitive, sorprende la tenerezza che si insinua nella storia, grazie al suo rapporto con l'amica Marci Mitchell (Wendi McLendon-Covey), anche lei alla deriva dopo una vita di sconfitte, con un amore che sembra non decollare mai per le scempiaggini del protagonista. Che però, miracolosamente, fa breccia nel suo cuore e in quello di una bambina che non parla, piccolo segno di una realtà che non è solo riducibile all'aneddoto scherzoso sull'uomo che voleva catturare Osama Bin Laden.

martedì 29 ottobre 2019

Timeless - The Movie (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 29/10/2019 Qui
Tema e genere: Film per la televisione di genere fantascientifico, finale della serie televisiva Timeless.
Trama: Con un piccolo aiuto da parte dei loro stessi del futuro, Lucy e Watt (e il resto della squadra) viaggiano attraverso tre secoli e due continenti, dagli Stati Uniti della corsa dell'oro all'evacuazione di Hungnam in Corea del Nord. L'obiettivo è quello di salvare Rufus, salvare la Storia e mettere fine a Rittenhouse una volta per tutte.
RecensioneTimeless è stata una serie fortunata e sfortunata al tempo stesso: cancellata dopo la prima stagione veniva salvata dall'enorme e continuo supporto dei fan, per poi venire cancellata nuovamente. Poi un altro miracolo o, chissà, un viaggio indietro nel tempo per cambiare gli eventi e la NBC confermava un film tv di due ore per concludere tutte le trame lasciate in sospeso. Ed eccoci così a The Miracles of Christmas, non certamente un film perfetto, anzi, ma un film in cui gli autori hanno risposto a tutti gli interrogativi più pressanti lasciati in sospeso, dando così un congedo più che degno ai protagonisti di questa breve, ma travagliata storia: nello specifico i due viaggi nel tempo, il primo nell'America di Joaquin Murrieta, l'ispirazione della leggenda di Zorro ed il secondo, ai tempi della guerra in Corea, non sono stati affatto la parte più avvincente dell'episodio, ma hanno fatto comunque da palcoscenico a ciò che per lo show contava davvero. L'episodio, riprendendo proprio dal finale della seconda stagione (qui la recensione), inizia con l'incontro degli Wyatt e Lucy del futuro con quelli del presente e la consegna da parte dei primi ai secondi del famigerato diario di Lucy grazie al quale potranno salvare la vita al loro amico Rufus. Sebbene non venga mai davvero spiegato il motivo per cui le loro controparti provenienti dal 2023 non possano dire apertamente come salvare il loro amico e gli suggeriscano di scoprirlo leggendo il diario, la sensazione generale è che gli autori non si siano preoccupati troppo della logica, ma abbiano preferito che le emozioni portassero in maniera graduale i protagonisti a prendere alcune decisioni che risulteranno poi fondamentali per la loro stessa esistenza. Ebbene, era comprensibile che con un'ora e mezza circa di tempo a disposizione non c'era modo di sviluppare una storyline solida, ma alcuni elementi (della trama in primis) non sono stati proprio realizzati nel modo migliore. Infatti, oltre ad alcuni (secondo me evitabili) buchi, alcuni personaggi (ed alcune società segrete, quest'ultima sconfitta in un battito di ciglia, bastava davvero così poco?) vengono liquidati in un modo davvero troppo semplicistico (e in questo modo siamo stati anche privati della soluzione al mistero della società stessa, un vero peccato). Anche la riappacificazione Lucy-Wyatt (non proprio imprevedibile) e la storia di Jiya nel 1888 sono state sacrificate, con conseguente sacrificio anche dei singoli personaggi. Certo, era inevitabile, ma brutto vederlo.

Red Zone - 22 miglia di fuoco (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 29/10/2019 Qui
Tema e genere: Thriller spionistico dalla forte componente action, una pellicola che mira inoltre a sfidare e a svelare gli scheletri nell'armadio dell'Intelligence, le sue zone d'ombra e i suoi pilastri costitutivi.
Trama: Indonesia. 22 sono le miglia che l'agente della CIA James Silva (Mark Wahlberg) deve percorrere per giungere in aeroporto: insieme alla sua squadra deve scortare e proteggere un informatore compromesso. Durante il lungo percorso dovrà scontrarsi con funzionari corrotti, signori della malavita e fuorilegge armati pronti a tutto.
Recensione: Quarto film consecutivo per la coppia Peter Berg/Mark Wahlberg dopo Lone SurvivorDeep water e Boston - Caccia all'uomo, ma anche il meno riuscito di tutti e l'unico che non sia tratto da una storia vera. A questo giro infatti il duo "muscolare" (che sforna un altro film d'azione che non offre certo molte novità a livello di sceneggiatura) non funziona come dovrebbe e vanifica quello che poteva essere un buon film d'intrattenimento. Mile 22 è difatti il punto di non ritorno del cinema di Peter Berg, onesto artigiano capace di toccare anche le corde giuste (nelle pellicole sue precedenti) nonostante sia sempre stato pericolosamente in bilico tra retorica e patriottismo. Regista dalla costruzione della ripresa frenetica ed adrenalinica, con tanta camera a mano unita a tagli di montaggio bruschi e ritmo serratissimo. Il problema di questa sua ultima fatica non è propriamente la tecnica di ripresa (nonostante alcune scelte confusionarie di montaggio), quanto l'ideologia di fondo, spiattellata davanti allo spettatore con un arroganza che ricorda il peggior episodio di Attacco al potere ma senza Gerard Butler. Ed è un peccato, perché il finale pensato da Berg è molto meno scontato di quanto si potrebbe pensare, ma si arriva a quel finale oggettivamente stanchi, dopo un'ora abbondante di scontri a fuoco al limite (e ben oltre) del credibile, intrisi di quella filosofia spicciola tutta a stelle e strisce che riesce davvero a stancare alla terza battuta. Sicuramente con una impostazione meno "machista", Red Zone avrebbe funzionato sicuramente molto meglio. Così com'è è un film sicuramente trascurabile. Un film che, afflitto da dialoghi un po' convenzionali in cui la star Mark Wahlberg (forse anche mal diretto, imbrocca una prova saccente, non riuscendo a caricarsi il film sulle spalle come invece gli era successo altre volte, il suo personaggio è sì originale ma definito secondo meccaniche poco credibili e surreali) sciorina tutto il suo repertorio da eroe un po' fuori di testa ma di corretti principi in stile Mel Gibson-Arma letale, si salva però proprio per il dinamismo dell'action, e per i 10 scarsi minuti di evoluzioni compiute dall'eccezionale attore indonesiano Iko Uwais, noto per i due eccezionali film The Raid, ed ormai star sbarcata nell'olimpo del cinema occidentale. Tutto il resto, comprese le moine di un John Malkovich cappellone (lui come tutti gli altri bidimensionale e stereotipato), è noia o déjà-vu.

Operation Chromite (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 29/10/2019 Qui
Tema e genere: War movie basato sugli eventi della battaglia di Incheon, che darà una spinta importante per la fine della guerra di Corea.
Trama: Douglas MacArthur, generale dell'Esercito degli Stati Uniti, e otto membri delle truppe sudcoreane guidate da un tenente della Marina mettono in atto l'operazione segreta denominata "raggi X". Portare a termine l'operazione significa dare il via alla cruciale battaglia di Incheon.
Recensione: Nel 1950, durante la Guerra di Corea, il comandante delle forze "occidentali", Douglas MacArthur, progetta un'operazione coraggiosa, uno sbarco presso la città di Incheon, con lo scopo di tagliare i rifornimenti verso le posizioni più avanzate delle truppe nordcoreane e poter respingere il nemico verso nord. Per rendere possibile l'operazione, si avvale di un gruppo di 15 uomini, i quali devono recarsi ad Incheon ed infiltrarsi tra i militari nordcoreani, per carpire informazioni e compiere azioni preliminari. Il film mostra, con lunghe sequenze di azione, le imprese dei quindici. Nonostante l'inizio caotico (avendo tutti le stesse divise non è chiaro quali siano gli infiltrati e quali i soldati nordcoreani) la trama procede con linearità, alternando alle sequenze di azione, il racconto delle fasi di preparazione all'operazione, con l'attenzione puntata sul generale statunitense. Fin qui tutto nella media, l'aspetto del film che rimane un po' indigesto, è l'eccessiva "ideologizzazione", condita da abbondante retorica. I personaggi del film sono di due tipi. I buoni, sudcoreani o americani, animati da spirito di solidarietà, rispettosi dei legami familiari, legati alla propria terra, i cattivi, i comunisti, spietati, incuranti dei legami affettivi, boriosi e prepotenti. Il film non riconosce mezze misure. Ai nostri occhi ciò può apparire assai sgradevole, ma non si deve dimenticare che il film è stato prodotto in Corea del Sud, e ciò può essere conseguenza del clima di inimicizia tra il nord ed il sud della penisola asiatica. I personaggi appaiono stereotipati, proprio per questa rigida dicotomia. Nessun attore spicca sugli altri per bravura (neanche il buon vecchio Liam Neeson, che qui è, sfortunatamente, solo il classico specchietto per le allodole). Buone le ricostruzioni di divise ed ambienti. Un film che ha premesse interessanti, narrazione "insipida" e reso in parte sgradevole da un'eccessiva ideologizzazione. Un film insomma mediocre, di cui decisamente si avrebbe fatto volentieri a meno.

Il ragazzo invisibile - Seconda generazione (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 29/10/2019 Qui
Tema e genere: Sequel de Il ragazzo invisibile, il primo cinecomic italiano.
Trama: Michele è cresciuto, e la sua vita continua a essere piena di sofferenza. I suoi poteri gli faranno conoscere persone legate alla sua vita e fare altre esperienze, esaltanti o dolorose.
Recensione: Nel 2014 il premio Oscar Gabriele Salvatores aveva sdoganato i cinecomics di produzione italiana, grazie al suo Il ragazzo invisibile. Un film tutt'altro che perfetto (anzi, alquanto insoddisfacente) ma coraggioso e con l'indiscusso merito di essere un "apripista" per il nostro mercato (senza di lui, probabilmente, non avremmo mai visto Lo Chiamavano Jeeg Robot). A distanza di un po' di anni il regista napoletano ci riporta a Trieste per raccontarci di un Michele cresciuto e alle prese con il suo passato, ma soprattutto con il classico passaggio all'adolescenza. È indubbia, all'interno de Il ragazzo invisibile - Seconda generazione la volontà da parte della produzione di trasportare il film sempre più all'interno del mondo dei cinecomics americani, scegliendo più la strada DC che quella Marvel (compresa sigletta iniziale in stile comics). Un film più cupo, dark, che punta raccontare all'interno di un contesto che cerca di essere più action, i "drammi" e le insicurezze dell'età di Michele. Un bilanciamento tra azione e autorialità che purtroppo non riesce mai a trovare un vero e proprio bilanciamento all'interno della pellicola rendendola poco organica e di difficile comprensione nei suoi intenti. Non si spinge mai sull'azione pura (forse verso la fine della pellicola) e allo stesso tempo si affrontano con estrema leggerezza molti tempi che dovrebbero essere accolti con maggiore profondità. Gran parte della colpa è da attribuire a due elementi ben precisi che emergono con prepotenza durante la visione: sceneggiatura e recitazione. La prima, composta a sei mani, offre dei buchi a volte francamente difficile da accettare, sorvolando su alcuni particolari su cui lo spettatore difficilmente non può accorgere, andando a minare dei personaggi che, purtroppo, non riescono minimamente ad emergere a causa di una recitazione che, purtroppo, è davvero insufficiente. Tutto questo rende lo scontro tra "speciali" e "normali" (che probabilmente avrà il suo culmine in un terzo film? ma speriamo proprio di no..) piuttosto debole con un villain che (questo sì nella miglior tradizione dei cinecomis) non riesce mai a trovare una sua precisa identità e profondità, rimanendo sempre un po' troppo esterno alla vicenda. Gli stessi "speciali" sono buttati un po' li con i poteri che ricordano quelli di molti mutanti della Marvel (quelli meno importanti, tra gli X-Men e I Fantastici 4), ma che purtroppo non riescono a spiccare a causa anche (e soprattutto) di una serie di effetti speciali tutt'altro che impattanti, nonostante la presenza del bravissimo Victor Perez (ha lavorato per Il Cavaliere Oscuro e Rogue One).

The Confirmation (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 29/10/2019 Qui
Tema e genere: Un moderno Ladri di biciclette meno sociale e più intimo che si focalizza sul rapporto padre-figlio, ma che non riesce a fare del tutto centro.
Trama: Uno sfortunato falegname ottiene un lavoro che potrebbe trasformare per sempre la sua vita quando la sua insostituibile cassetta degli attrezzi viene rubata. Dovrà così rintracciare i ladri, prima che finisca la settimana, in compagnia di un improbabile compagno: il giovane figlio che non lo sopporta.
RecensioneBob Nelson, candidato all'Oscar per la sceneggiatura originale di Nebraska di Alexander Payne, esordisce alla regia con un film che costruisce sulla sua semplicità il fulcro della storia. Sin dalle prime inquadrature risulta chiara tuttavia l'inesperienza di Nelson dietro la macchina da presa, che adotta uno sguardo incerto e traballante, rafforzato da uno stile povero di dettagli e che non gioca con le varie tecniche registiche, ad eccezione di qualche piccolo movimento casuale di macchina. Le vicende del film sono leggermente caratterizzate dal punto di vista del bambino senza però marcare troppo su questa linea. Come a riprendere il neorealismo, la pellicola cerca di puntare tutto sulla storia rappresentata, su questo racconto di formazione di un giovane che, nel corso del film, si trova costretto a mentire costantemente, rubare ciò che è suo di diritto, organizzare stratagemmi per aiutare il padre a cavarsela nella sua situazione disperata e operare una serie di azioni che sa essere sbagliate ma le compie con tutta l'innocenza propria dei bambini. Il giovane cresce formando una propria idea della realtà che lo circonda, capendo attraverso l'avventura percorsa che non esiste giusto o sbagliato in senso stretto ma siamo noi stessi a dover trovare il giusto equilibrio nelle scelte che perseguiamo. Così come in Ladri di biciclette, la narrazione si svolge nell'arco di un solo weekend e scava nel rapporto tra i personaggi per arrivare a mostrare i cambiamenti che possono avvenire in poco tempo in un bambino costretto a comportarsi da adulto per risolvere i problemi causati dall'inattenzione e dalla sprovvedutezza del proprio genitore. Per assurdo, le scene drammatiche che rappresentavano i momenti salienti e pregnanti del capolavoro neorealista, in questo film non funzionano come dovrebbero e risultano essere banali e poco d'effetto. La pellicola riesce a colpire e affermarsi solamente nel momento in cui l'ironia e la spensieratezza del bambino si fanno strada e prendono possesso della storia facendola proseguire verso un cammino, forse troppo radioso e irrealistico, ma sicuramente più coinvolgente di quello mostrato all'inizio della pellicola. Una storia di base, benché già ripresa innumerevoli volte negli ultimi anni, sicuramente interessante da affrontare e rendere propria ma che, a causa di una sceneggiatura forse non perfettamente concepita, impiega diverso tempo prima di ingranare e insinuarsi nell'interesse di chi guarda. È solo dalla seconda metà del film che si riesce ad entrare pienamente nello spirito della vicenda e ad apprezzarla grazie soprattutto all'alchimia che si inizia ad instaurare tra i due protagonisti. È il giovane ragazzo, interpretato da un adorabile Jaeden Lieberher, a salvare continuamente la situazione e a trascinare l'attenzione del film, facendoci sorridere per le sue espressioni preoccupate e pensierose che fanno capire come le rotelle della sua mente siano sempre in funzione per architettare un nuovo piano o ideare un'altra piccola bugia. Ma non basta, perché anche se, nonostante tutto, il film riesce a renderti complice delle vicende dei due protagonisti e a patteggiare per loro, anche quando non dovresti, il suddetto non fa presa e non si fa per niente ricordare.

Doppia Colpa (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 29/10/2019 Qui
Tema e genere: Thriller psicologico/drammatico giallo incentrato su un ambiguo caso di cronaca nera affidato ad un navigato poliziotto.
Trama: Un professore "felicemente sposato", noto per il suo fascino, diventa il primo sospetto quando una giovane donna viene trovata morta. In realtà l'uomo nasconde di essere un ex alcolizzato e cova dentro di sé un forte malessere, talmente forte da fargli dubitare della realtà.
Recensione: Un thriller mediocre, povero di spunti che prende delle vie già percorse senza particolari sussulti. Il personaggio di Guy Pearce gioca un pochino al "memento" considerato le sue difficoltà di memoria, sospesa tra l'immaginario ed il reale. Pierce Brosnan più sornione e più misurato, mentre la vera indagine in fondo è affidata alla moglie interpretata da Minnie Driver. Un indagine che si focalizza sull'uomo che le sta accanto, tanto che la scomparsa della ragazza rimane volutamente a fare da cornice. Così facendo però si toglie troppo sale alla storia che si riassume nel solito dramma familiare di una coppia in crisi e sul bilico del divorzio. Perché certo, il building up dell'aura di mistero è molto ben calibrato, fra strutture a flashback, false piste, visioni oniriche (ricordi?) che inducono lo spettatore a dubitare della colpevolezza del protagonista, ma il gioco dura troppo: ben presto il film si rivela troppo lento, verboso e pretenzioso coi suoi discorsetti filosofici circa la verità o ciò che noi interpretiamo come tale. Però non sarebbe un problema se i nodi venissero al pettine nel finale: così non è, e quindi a fine visione resta un senso di vuoto e di delusione, per aver appunto visto un film pasticciato ed incongruente come questo. Un film in cui non ci sono colpi di scena, non c'è pathos, non c'è neppure una regia credibile, resta solo il caos. Scivolata abbastanza grande per il regista e, soprattutto, per il cast.

sabato 26 ottobre 2019

Bohemian Rhapsody (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 25/10/2019 Qui
Tema e genere: Pellicola biografica musicale che ripercorre i primi quindici anni del gruppo rock dei Queen, dalla nascita alla consacrazione.
Trama: La carriera e la vita di Freddie Mercury, dal suo incontro con quelli che poi sarebbero con lui diventati i Queen, all'apoteosi del Live Aid.
Recensione: Sono un fan dei Queen da quando ho memoria, ma anche se non lo fossi stato, penso che Bohemian Rhapsody fosse (ed è) un film che serviva. Freddie Mercury e i Queen con le loro canzoni bellissime e la loro musica innovativa hanno conquistato generazioni, e pertanto si tratta di un omaggio, un tributo dovuto e che molti fan attendevano da anni. Il rischio semmai era proprio questo, ovvero disilludere le aspettative giustamente alte del pubblico, che pretendeva un film verosimile, con attori credibili e aderenza alla realtà, in grado di far rivivere determinate emozioni agli spettatori più "vecchietti" e conoscere e far apprezzare questo incredibile gruppo alle nuove generazioni. Ebbene, seppur non completamente veritiero, mai scelta fu azzeccata nell'affidarsi ad un cineasta affermato ed eclettico che risponde al nome di Bryan Singer, che nonostante le difficoltà (ad un certo punto licenziato dalla Fox e sostituito in corsa per la post-produzione) dà vita (anche grazie all'aiuto di Anthony McCarten, mostro sacro della sceneggiatura che negli ultimi anni ha infilato due eccellenze come La teoria del tutto e L'ora più buia) ad uno dei suoi più riusciti lavori e forse ad uno dei migliori biopic musicali di sempre (egli riesce infatti a rendere epica e toccante una storia che in fondo è simile a tante altre, che segue un arco vitale quasi scontato). Rispondendo al resto, è proprio la grande credibilità degli attori a contribuire al buon risultato complessivo. Non una semplice interpretazione ma una vera e propria reincarnazione, quella di Rami Malek, aiutato da trucco prostetico forse un filo eccessivo, ma la fisicità è tutta sua. Anche gli altri membri del gruppo sono stati scelti per la perfetta aderenza fisica, con un effetto a tratti straniante (Gwilym Lee è Brian May, Ben Hardy è Roger Taylor, Joseph Mazzillo fa John Deacon), ma tutti assai ben delineati. Ed è così che Bohemian Rhapsody, film che ha ricevuto quattro Oscar durante l'ultima edizione dei premi, quelli di miglior attore, miglior montaggio, miglior montaggio sonoro, miglior sonoro, risultando il film con più premi vinti in quell'edizione, e tutti premi certamente non regalati, porta sul grande schermo la storia dei Queen e di Freddie Mercury. Dal lavoro come scaricatore di bagagli all'aeroporto di Heathrow, a una famiglia tradizionalista, attaccata alle proprie origini persiane, la vita di Farrokh Bulsara/Freddie Mercury (interpretato in maniera assolutamente convincente da Rami Malek, se infatti la somiglianza fisica tra l'attore e il cantante è poca, i denti posticci di Malek poi sono esageratamente sporgenti, le movenze, il modo di stare sul palco, di cantare e di rivolgersi al pubblico è invece fedele, grazie anche al playback credibile) è scandita dagli incontri, prima coi suoi primi compagni di musica Brian May e John Deacon, poi dalla relazione con Mary Austin (Lucy Boynton, intravista ne Assassinio sull'Orient Express), con la quale stava per convolare a nozze, salvo rivelarle la propria omosessualità.

giovedì 24 ottobre 2019

Antiporno (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 24/10/2019 Qui
Tema e genere: Il rapporto tra il genere femminile ed il sesso è, come già in Guilty of Romance, il tema principale della pellicola. E, come accadeva in quello stesso film, anche in Antiporno (una specie di revival del sottogenere erotico giapponese Roman Porno) il sesso è lo strumento attraverso il quale la donna può essere libera in una società così tremendamente maschilista come quella giapponese.
Trama: Cronaca della quotidianità malata di Kyoko, giovane aspirante artista con la propensione alla pornografia, tra istinti belluini, derive corporali e isterismi violenti che trovano la vittima sacrificale nella mite segretaria Noriko. Ma non tutto è come sembra.
Recensione: Cos'è AntipornoAntiporno è un grido, un affronto alla società nipponica falsamente benpensante. Una facciata di falso moralismo dietro la quale si cela il degrado etico di una nazione che ha perso il controllo di sé stessa. In tal senso va subito detto che, nonostante vi siano scene di nudo (e inevitabilmente lesbo) piuttosto ripetute, il film prende le distanze dall'erotismo fine a se stesso, ludico e privo di senso. Al contrario, nel rispetto del titolo stesso, sembra prediligere un impianto malinconico, anti-erotico e femminista. Il Roman Porno è prevalentemente appannaggio di un pubblico maschile, spesso attratto dalla visione contrastante di delicate fanciulle tra le grinfie di (sp)orchi brutti e cattivi, ma il regista di Antiporno manifesta fin dalle prime sequenze un'attenzione più ai dettagli e ai contenuti che non al nudo, elemento qui inserito in una scenografia allucinata, resa completamente irreale dall'uso sfolgorante della fotografia. Colori accessi e luccicanti, che vanno dal giallo al verde, spesso in contrasto tra loro (rosso su giallo) come per rendere (tramite immagini) una contraddizioni in termini di tonalità. Una contraddizione che rispecchia il testo. Testo difficilissimo e di improbabile lettura, almeno di improbabile unica lettura. Perché Kyoko, lo si scopre dopo il primo twist spiazzante (il set cinematografico), sembra in realtà rivivere momenti della vita, in uno stato allucinatorio. La perdita della verginità, il controverso rapporto con un padre sposato in seconde nozze, una sorella dall'infausto destino, il desiderio di recitare in un film pornografico: esperienze (passate) che si succedono (mescolandosi) di nuovo sul teatro più triste che esista per una ragazza/oggetto, quello della vita. I piani di lettura (molteplici) e l'insistito linguaggio volgare, in contrasto con una pregevole regia e le affascinanti scene in tono "arcobaleno", rendono Antiporno un film di difficile catalogazione, ovvero né erotico, né drammatico. L'apprezzabile tentativo di prendere le distanze dalla consuetudine del filone, ovvero del corpo femminile visto come oggetto, quando non giocattolo, contrasta con il complicato meccanismo a incastro della sceneggiatura, finendo per confondere troppo spesso lo spettatore. Antiporno si colloca dunque in quel nutrito catalogo di titoli che possono essere valutati o zero o dieci, senza mezze misure. Dall'inguardabile all'eccezionale, pertanto (nel dubbio) sufficientemente interessante.

Guilty of Romance (2011)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 24/10/2019 Qui
Tema e genere: Nuovo attacco non molto mascherato ai valori e ai modelli sociali giapponesi attraverso modalità cinematografiche diverse e depistanti da parte di Sion Sono. Si mescola l'horror, il thriller, il dramma erotico, la letteratura, per tracciare solchi di identità femminili.
Trama: La detective Kazuko arriva sul luogo di un orrendo delitto, in una baracca nel distretto a luci rosse di Tokyo: un manichino femminile vestito da scolaretta è costituito in parte da pezzi umani. Per terra c'è un altro manichino, anch'esso in parte fatto di carne: chi e quante sono le vittime? Possono essere collegate alla recente sparizione di due donne, la casalinga Izumi e l'assistente professoressa universitaria Mitsuko?
Recensione: Ancora una volta Sion Sono racconta l'atroce ambiguità della condizione umana nel Giappone contemporaneo, il disagio di un'intera società e la ricerca di un'impossibile catarsi, l'isolamento e la solitudine che si esprimono nella fuga nella prostituzione. Come in Suicide Club o in Cold Fish (e probabilmente in quelli che stanno nel mezzo), la risposta all'alienazione è sempre paradossale. Guilty of Romance sfodera da subito i toni dell'incubo con una brutale ferocia. Percorsi alieni, oscuri e deformi si generano nel seno di un Paese in cui accade troppo poco, in una società che prevede che tutto sia precostituito dall'inizio. Il Giappone è il sepolcro imbiancato suggellato dall'algida espressione della testa di un manichino che al suo interno marcisce e pullula di vermi, uno Stato che ha ingessato la parola e mutilato l'azione. Il castello agognato, ripetuta citazione kafkiana, rimane distante e inaccessibile. La ricerca di un senso sfocia nella negazione di un senso, non vi è percorso né volontà di cammino, poiché non esiste una destinazione. La pellicola (ultimo episodio della "trilogia dell'odio", così definita dallo stesso Sono, iniziata da Love Exposure, da recuperare sicuramente, e proseguita da Cold Fish) è così incentrata sulla figura di tre donne di diverse estrazioni, la moglie di un noto romanziere, una professoressa universitaria e una detective incaricata di una complicata indagine, tutte e tre (di differenti anche stati mentali) accomunate dall'essere insoddisfatte della propria vita coniugale/sessuale, dall'essere fedifraghe e/o dedite a pratiche di soddisfazione dei sensi decisamente poco ortodosse. La trama invece, è organizzata in cinque capitoli più un epilogo, che non rispetta un definito arco temporale ma si sposta con una certa disinvoltura più volte avanti e indietro rispetto al ritrovamento di un cadavere orrendamente mutilato di una delle tre protagoniste. Il film, girato molto bene e con seducenti inquadrature esaltate da colori vivi contrapposti ad un contorno plumbeo e piovigginoso, con coinvolgenti e un po' insistite musiche in cui predomina un violino un po' invadente, si aggroviglia un po' nello svolgimento (o forse non sono riuscito a comprenderlo appieno, complice una visione con un doppiaggio ballerino) e si indebita molto in certe situazioni con alcuni capisaldi del cinema d'ogni tempo: il magnaccia delinquentello con la bombetta non può non richiamare i teppisti kubrickiani di Arancia meccanica, la professoressa dalla doppia vita è un po' una nuova Kathleen Turner del Russell anni '80 China Blue, mentre per il riuscito personaggio della madre di quest'ultima (alla quale si deve un monologo davvero strepitoso sull'origine delle perversioni in capo alla figlia) difficile che il regista non si sia almeno lontanamente ispirato alla Clara Calamai del Profondo Rosso di Dario Argento. Ritengo inoltre che una sforbiciata di una mezz'ora avrebbe giovato al film non sempre così scorrevole come un thriller richiederebbe, ma nel complesso una visione coinvolgente (proprio per le tante tematiche che affronta) la si ha, anche se nella sfera della sufficienza.

Cold Fish (2010)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 24/10/2019 Qui
Tema e genere: Prendendo spunto da un vero fatto di cronaca, Sion Sono in modo giustamente rimaneggiato, parte con l'ormai classico tema della famiglia disfunzionale (argomento cardine della sua poetica) per poi prendere le strade di un thriller pacato fino ad inanellarsi sui binari dell'horror brutale e grottesco dove tra l'altro trova posto pure il genere dell'ero-guru (erotico grottesco). Dando così vita ad film drammatico e terrificante, ulteriore tassello di una filmografia ricca e stratificata come quella del regista giapponese.
Trama: Shamoto, gestore di un negozio di pesci tropicali, ha una figlia adolescente, Mitsuko, che viene fermata per taccheggio in una drogheria. L'aiuta a risolvere la faccenda Murata, anch'egli gestore di un negozio di pesci tropicali, per il quale Mitsuko inizia a lavorare. In realtà, dietro al suo fare gentile, Murata nasconde segreti inconfessabili che condivide insieme a sua moglie.
RecensioneSion Sono trova nella realtà uno spunto per tratteggiare ancora una volta un ritratto sconfortante dei mali esistenziali del popolo giapponese contemporaneo: disgregazione famigliare, depravazione sessuale, patologie mentali. Con una freddezza che fa ben più terrore delle sanguinolente immagini messe in scena (pure spaventose), il regista filma la distruzione psicologica del protagonista, giapponese medio con un lavoro tranquillo ed una famiglia normale, che lentamente vede crollare tutto ciò che ha costruito sotto i colpi di una follia cieca di cui è sia vittima che complice. Non si sa proprio per chi fare il tifo in questo film che non vanta nessun personaggio positivo, bensì una schiera di personcine maligne, meschine, o semplicemente pazze. Un abisso senza fondo che può solo precipitare in una violenza talmente efferata da poter essere perpetrata senza suscitare scandalo né rimorso di coscienza. Cold Fish, come sempre capita nei film di Sion Sono, è quindi un'opera complessa e stratifica che si serve intelligentemente di vari generi cinematografici per mostrarci un'umanità allo sbaraglio, forse destinata all'oblio. Perché anche se Cold Fish, per quanto atipico ed originale, rimane comunque un film di genere in grado di sorprendere soprattutto gli amanti dell'horror (gli omicidi sono glaciali ed il tutto risulterà molto disturbante per l'indifferenza e la brutalità con cui vengono perpetuati), per i suoi temi drammatici e sociali, può riuscire a colpire tutti. Più in generale, se con Suicide Club, Sono faceva del suicidio un atto di coraggiosa presa di coscienza di sé, Cold Fish può invece considerarsi un'apologia (satirica ovviamente) dell'omicidio: uccidere sembra infatti essere l'unica esperienza in grado di svegliare l'uomo medio dall'anestesia del tran-tran quotidiano e riscattare il grigiore di una vita anonima passata a chinare il capo e seguire la corrente.

Suicide Club (2001)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 24/10/2019 Qui
Tema e genere: Dal folle e genialoide regista Sion Sono, un primo assaggio della sua estetica spiazzante e disturbante, con un film horror dai toni drammatici incentrato sull'alienazione della società giapponese.
Trama: Una task force della polizia indaga sul dilagare di una allarmante moda che sta prendendo piede tra giovanissimi liceali: quella di mettere in atto inaspettati quanto eclatanti suicidi di massa. Sospettando dapprima una organizzazione che agirebbe per istigazione via internet, vengono messi fuori strada da due cybernaute che stanno studiando il caso e quindi da un gruppo di sadici mitomani tratti in arresto. La verità però sembra più sconvolgente e incredibile di quanto sembri.
Recensione: Nato come primo capitolo di una trilogia sull'alienazione e l'individualismo spinto della società nipponica (con tanto di merchandising, libro e manga al seguito) questo stravagante giallo-horror pittoresco ed eccentrico, si diverte a portarci sulla falsa pista di una detection dai risvolti macabri e surreali per spostarsi infine su quelli di una teoria del complotto che chiama direttamente in causa la responsabilità dei mezzi di comunicazione di massa (internet, tv e telefono) quali veicoli d'elezione per la manipolazione della coscienza collettiva e nemesi di un irreversibile fallimento della coscienza individuale. Se le forme di un falso documentario (camera mobilissima, scene di vita quotidiana, indagine sugli aspetti più controversi della modernità tecnologica) sono solo il paravento per una storia ad incastri che rivela la solita ipertrofia e gusto per l'eccesso del cinema nipponico, le innumerevoli citazioni e l'abilità di condurre il gioco lungo il fil rouge di una pista sbandierata fin dall'incipit e ribadita più volte durante le numerose sequenze rivelatrici sparse per il film, ne fanno un piccolo saggio sul potere di mistificazione delle immagini e più in generale degli stimoli che subiamo continuamente dai subdoli strumenti di convincimento di una dilagante società dei consumi. Quello che se ne ricava in fin dei conti è il primato delle sovrastrutture sociali sul libero arbitrio individuale e sulla possibilità che tutto avvenga senza uno scopo o una ragione precisa. Non c'è il perché insomma, ma solo il come: l'empatia ed una semplice telefonata sono il detonatore di un'assurda epidemia di auto-da-fe eterodiretti. Dove non porta la falsa pista di una banda di sadici mitomani dell'omicidio di massa, portano invece i subdoli ed assai più potenti messaggi subliminali di una (boy)band di ragazzine in pigiama (quando si dice: l'innocenza del diavolo ai tempi dei tormentoni tv e delle videochat). Nella sorpresa finale poi il paradossale ribaltamento di un irriducibile nichilismo esistenzialista, laddove comunque si viri decisamente al fantapolitico ed al pop, il film di Sono finisce per veicolare lo stravagante gusto nipponico di un inaspettato inno alla vita. Non un horror classico quindi, non un film che fa spavento per il sangue o a causa della presenza di un fantasma assetato di vendetta, ma un film che colpisce e stranisce, e tanto.

Sion Sono Filmography

Post pubblicato su Pietro Saba World il 24/10/2019 Qui - Ancora un regista giapponese eccessivo e delirante, dopo i molti maestri (più o meno controversi) che il cinema del Sol Levante ci ha fatto incontrare negli ultimi 15-20 anni. Maestri (ma non dell'animazione) che ho scoperto ed ho conosciuto però solo nell'ultima decade. Un pensiero a certi film di Takeshi Kitano o di Takashi Miike è infatti inevitabile. A proposito di quest'ultimo, tornerà presto su questi schermi, con altre pellicole della sua filmografia, come succederà anche nel caso del regista oggi in oggetto. Parlo ovviamente di Sion Sono, che ho conosciuto tramite lo spiazzante ed incredibile horror Tag, che dopo averne lette da alcune parti, in modo positivo logicamente, ne ho voluto perciò scoprire qualcosa in più. Scoprire ciò naturalmente tramite la sua discreta (in termini numerici) filmografia. Cosa poi non così semplice, non perché complessa (soprattutto in termini tematici, e di questo ne dirò dopo) ma perché di difficile reperibilità, infatti nonostante sia uno dei più apprezzati esponenti della cultura giapponese moderna e uno dei cineasti contemporanei più dirompenti, nel nostro paese Sion Sono è noto solo ad una cerchia ristretta di spettatori e critici, e nessuno dei suoi film è mai stato distribuito in Italia, a parte alcune presentazioni alla Mostra di Venezia. Tuttavia ci son riuscito, con i sottotitoli certo, ma intatto rimane il valore del suo cinema, un cinema che, pur estremamente raffinato, tende alla "popolarità", nel senso più moderno: visionario, provocatorio e torrenziale, mescola psicanalisi e Grand Guignol, mélo e cultura pop, horror e politica, serial killer e dark ladies, Nouvelle vague e Tarantino, una lucida disperazione per il vuoto nel quale si trovano immersi i giovani d'oggi e una testarda impronta anarchica che lo porta a non ripetersi mai, a non ammorbidirsi, ad andare sempre oltre. Ebbene ho visto quattro dei suoi film (come da Promessa), tra i più importanti e conosciuti della sua filmografia, ma altri quattro, quasi sicuramente (ma che non saranno collegati alla Promessa per il 2020), vedrò l'anno prossimo. Intanto beccatevi questi qui e tenetevi forti, Sion Sono dopotutto è un degno erede di Miike, e suoi film si sa, pungenti e disturbanti sono.

mercoledì 23 ottobre 2019

The Boy and the Beast (2015)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 23/10/2019 Qui
Tema e genere: Film d'animazione giapponese vincitore di un Oscar nazionale, un action fantasy ma non solo.
Trama: Un bambino rimasto solo nel mondo degli umani trova in quello dei mostri una casa, affetto e un (bizzarro) secondo padre che gli insegnerà a combattere il male, anche quello dentro di lui.
Recensione: Immaginatevi due mondi, paralleli ma connessi: uno è quello che conosciamo, nel quale viviamo, l'altro è un mondo dominato da bestie, esseri ferini dall'aspetto antropomorfo. Parte da questo concetto l'ambientazione di The Boy and the Beast, film giapponese di Mamoru Hosoda, regista che ho conosciuto grazie a questo film, un film che non sarà sicuramente l'unico che di lui vedrò. In tal senso se avessi saputo che il film riprendeva alcuni dei temi già da lui proposti in precedenti suoi lavori, l'avrei visto dopo aver visto La ragazza che saltava nel tempo, Summer Wars e Wolf Children (2 di questi incredibilmente erano già in lista), ma è andata così e non ho rimpianti (e comunque li vedrò prossimamente insieme ad il suo ultimo lavoro, Mirai, nella lista dei film Premi Oscar 2019 da vedere). Nessun rimpianto dicevo, perché sì, anche senza conoscere la sua filmografia e concetti, ho apprezzato tanto questo bel film. Un film che con una scena di apertura pregevole, ci presenta un ragazzino di nome Ren (Kyuta), orfano due volte: per la madre deceduta e per un padre scomparso al quale non viene dato in affidamento. Ed è in questo preciso momento in cui il protagonista decide di scappare e vivere nel pieno vagabondaggio, fino a quanto non incontrerà una creatura parlante, Kumatetsu, appartenente ad un'altra dimensione, quella delle bestie (che non vede di buon occhio gli umani, portatori naturali delle tenebre). Riunitosi nel mondo parallelo, Ren sarà sotto la sua (scorbutica) ala come apprendista fino al momento in cui, inaspettatamente, scoprirà la via di ritorno al mondo reale. E da allora, Ren sarà in grado di destreggiarsi, cavarsela da solo, per continuare a vivere tra le due dimensioni. Ma quando entrambi i mondi saranno in pericolo, toccherà a lui sistemare tutto. The Boy and the Beast è insomma un film a metà tra il fantasy e il classico racconto di formazione, una pellicola che nella sua tematica rende omaggio anche ad imponenti opere del calibro di Moby Dick, o quelle culturali e storiche ritraenti la mitologia giapponese. Un film quindi che ha una sceneggiatura ed un soggetto che vanno al di là del classico film per bambini, trattando appunto temi decisamente adulti, ma mascherandoli con un velo di comicità. Impossibile infatti trattenere il sorriso dinanzi i siparietti comici creati dalla strampalata coppia ogni qual volta litiga, così come è difficile trattenere qualche lacrima sul finale quando i toni si fanno decisamente più cupi.

martedì 22 ottobre 2019

La paranza dei bambini (2019)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 21/10/2019 Qui
Tema e genere: Interamente recitato in napoletano e sottotitolato in italiano, questo film, che è l'adattamento cinematografico dell'omonimo romanzo scritto da Roberto Saviano, è un dramma di formazione che parla di criminalità, ma non solo.
Trama: Nel rione Sanità di Napoli crescono nuovi giovani boss: guidati da Nicola e dal figlio dell'ex boss che un tempo guidava il quartiere. Nell'incoscienza della loro età vivono in guerra e la vita criminale li porterà a una scelta irreversibile: il sacrificio dell'amore e dell'amicizia.
Recensione: Parliamoci subito chiaro, La paranza dei bambini è un bel film, ben fatto e di pregio, che non fatica a porsi come opera interessante e di qualità, che quindi merita di essere visto, perché racconta ugualmente delle storie importanti, ma è anche un film che fallisce nel distanziarsi da opere precedenti. Le storie che il film ci racconta sono tristi, coinvolgenti, necessarie, ma è una ripetizione, che lo si voglia o no. C'è da dire infatti che per quanto concerne questo lavoro di Claudio Giovannesi, regista emergente di indubbio talento, pur se lodevole nelle intenzioni e interessante nella disamina delle dinamiche criminali e del comportamento dei piccoli delinquenti in erba, somiglia troppo a tanti prodotti similari che lo hanno preceduto. A parte il famoso Gomorra sia il film che la serie, anche tante altre pellicole più o meno recenti. La sostanziale differenza, è che questo è un racconto di iniziazione, che parte da zero per giungere al crimine più efferato, questa escalation è tanto sorprendente, laddove i suoi protagonisti sono solo dei "bambini" costretti a crescere in fretta, in un luogo infernale, senza speranze e prospettive, dove vige qualcosa che assomiglia molto alla legge della giungla. Stride volutamente il momento in cui il giovanissimo protagonista, conquistato il quartiere, dopo aver sparato e ucciso senza il benché minimo rimorso, litiga con il fratello piccolo, per delle merendine. Dunque si parla di ragazzini ingenui, immaturi, che incoscientemente imboccano la strada senza ritorno, del crimine. Fanno tenerezza e rabbia, nella loro indole, coesistono slanci affettuosi e comportamenti spietati. Nicola (il protagonista) fa la corte a Letizia (interpretata dalla bella Viviana Aprea), regalandole dei palloncini, si diverte sulle autoscontro insieme alla sua fidanzata, poi la bacia al San Carlo durante l'esecuzione di un'opera lirica. Ci sono molti elementi di riflessione e il film è ben girato e ben interpretato da attori non professionisti, reclutati proprio dalla strada, quindi molto realistico, soprattutto nel linguaggio, un dialetto napoletano stretto, giustamente sottotitolato (in tal senso il grande pregio di questo film crudo e schietto sta proprio nel descrivere questa realtà in modo vivido e diretto, raccontando le storie di ragazzini con manie e sentimenti tipici dell'età che hanno). A rimarcare l'aderenza della trama con l'attualità, la cronaca partenopea tristemente ci riferisce quotidiana mente, di "stese" effettuate con disinvoltura, nei quartieri malfamati di Napoli, proprio ad opera di baby-gang. Per chi non lo sapesse le cosiddette "stese" consistono in raid compiuti da giovanissimi balordi a bordo di motorini, che sparano all'impazzata ad altezza d'uomo, non hanno bersagli precisi, ogni tanto qualche pallottola vagante colpisce qualcuno, che ha solo il torto e la sventura di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, servono unicamente a "marcare il territorio" cioè a comunicare a tutti, che in quel quartiere, comandano loro.

sabato 12 ottobre 2019

Dragon Trainer - Il mondo nascosto (2019)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 11/10/2019 Qui
Tema e genere: Terzo ed ultimo film del franchise di Dragon Trainer, una saga d'animazione incentrata sul rapporto d'amicizia tra un vichingo ed un drago.
Trama: A Berk vichinghi e draghi convivono sotto la guida di Hiccup e Sdentato. Ma uno spietato cacciatore di draghi costringe i nostri a cercare un altro rifugio. Un rifugio leggendario ai confini del mondo.
Recensione: Concludere una trilogia non è mai semplice, riuscire a dare il giusto senso di chiusura è un onere non indifferente e non sempre i risultati sono soddisfacenti, anzi spesso il terzo capitolo è quello con maggiore criticità. Non è questo il caso, perché Dragon Trainer - Il mondo nascosto (che a scanso di clamorosi ripensamenti è l'ultimo capitolo), che di per sé è un discreto film, chiude soddisfacendo lo spettatore e quindi il fan o amante della saga. Giacché la storia iniziata anni fa si conclude in maniera perfetta e il rapporto tra Hiccup e Sdentato è sviluppato in maniera coerente, sottolineando la crescita di entrambi, nonostante la vicenda qui raccontata si svolga appena un anno dopo rispetto a quella del secondo film. Da una parte il giovane protagonista deve far fronte alle responsabilità di essere il capo del villaggio di Berk, costantemente convinto di non essere all'altezza del padre, dall'altra il suo drago si ritrova per la prima volta di fronte a un esemplare femminile di Furia Buia (una Furia Chiara, per la precisione), situazione che porterà a siparietti divertenti, ma anche teneri e in alcuni casi toccanti. A fare da cornice al tutto animazioni impeccabili, le sole, attualmente, che rendono la saga di Dragon Trainer in grado di rivaleggiare con le pellicole della Pixar e della Disney Animation Studios. Un'estetica insomma a dir poco spettacolare. La resa grafica supera infatti quella dei due film precedenti e trova il suo culmine nel coloratissimo quanto misterioso Mondo Nascosto (peccato solo che Il Regno dei Draghi venga introdotto in tutta la sua magnificenza ma non venga approfondito in modo particolare). Va però detto che, rispetto ai capitoli precedenti, quello conclusivo (che tende a scivolare proprio dai capitoli precedenti di più verso soluzioni tradizionali e quindi prevedibili, anche se un un paio di spunti interessanti, belli e profondi, vengono forniti allo spettatore) pecca di superficialità nella caratterizzazione dei personaggi. Anche quelli già conosciuti si riducono a macchiette divertenti, ma senza una reale profondità.

venerdì 11 ottobre 2019

Martyrs (2008)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 10/10/2019 Qui
Tema e genere: Controverso film francese diretto da Pascal Laugier, un horror definito come il più innovativo degli anni 2000.
Trama: Lucie è ormai scomparsa da un anno, quando viene ritrovata mentre cammina lungo una strada, in stato catatonico, incapace di ricordare cosa le sia successo. La polizia scopre il luogo dove la ragazza è stata rinchiusa, un vecchio mattatoio abbandonato. Tuttavia Lucie non presenta alcun segno di abuso sessuale o di violenza. Quindici anni dopo, si trova in una casa in mezzo alla foresta, ha un fucile in mano, e uccide un uomo.
Recensione: Fastidioso, malato, stomachevole, ma anche intrigante, geniale, differente sono alcuni degli aggettivi coi quali i migliori divoratori di horror che conosca hanno definito Martyrs e cosicché che alla fine ho deciso di cimentarmi anch'io nella visione dell'horror più innovativo degli anni 2000. Premetto di amare il genere e di essere un piccolo fan dei "torture porn", ma questa pellicola proprio non mi ha convinto fino in fondo. Però confermo, l'opera non lascia lo spettatore indifferente e, cosa non da poco, più che la paura, la somatizzazione entra nella stanza accompagnata da una sensazione di fastidio che potrebbe mettere a disagio anche i più indomiti e/o insensibili polimorfi, non io, anche se, tra risatine isteriche, sussulti sulla sedia e pruriti improvvisi, tutto mi è capitato, anche che gli snack diventassero meno gustosi. E tuttavia nessuna scena è davvero devastante, in Hostel (o nell'altro capostipite dell'horror francese moderno, Frontiers), per fare un esempio, troviamo sequenze molto più disgustose e aberranti. In ogni caso, cos'è Martyrs, presentato all'epoca a Cannes, dove molte polemiche suscitò, è il frutto di una mente curiosa di approfondire la psiche umana (e l'anatomia), oppure il regista è l'ennesimo pazzo scatenato che vuole dimostrare a sé stesso e a chi è a caccia di nuovi brividi di essere bravo nel destabilizzare l'essere umano? O, forse, è solo il gioco perverso di qualcuno che per guadagno non disprezza fare leva sulle comuni paure? Insomma, il dubbio che l'autore (Pascal Laugier) vada oltre lo scibile per pura, semplice, atavica voglia di emergere sorge e che abbia un secondo e (forse) poco nobile fine pare probabile, soprattutto per la scelta di mostrarci tutti gli stadi che portano l'essere umano dal pieno delle facoltà mentali e dalla buona salute al morire di stenti e dolore sviluppando uno stato di grazia degno di approfondimento scientifico.

mercoledì 9 ottobre 2019

Cold War (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 08/10/2019 Qui
Tema e genere: Dramma romantico, che ha ricevuto tre nomination ai premi Oscar 2019, tra cui quella nella categoria miglior film in lingua straniera, che è il racconto di una appassionata relazione tra due persone di differente background e temperamento, che sono fatalmente attratte e condannate l'una all'altra.
Trama: Sullo sfondo della guerra fredda, tra la Polonia, Berlino, la Jugoslavia e Parigi degli anni anni Cinquanta, ha luogo un'impossibile storia d'amore in un momento storico altrettanto impossibile, quella tra una cantante e un musicista.
Recensione: Un amore impossibile in piena Guerra Fredda. Un dramma in bianco e nero che dipinge la relazione tossica e carnale tra allieva e maestro (beninteso), a suon di canzoni. Nell'arco di quindici anni, i due amanti si lasceranno per poi ritrovarsi passando dalla Polonia stalinista, a Berlino-est, da una Parigi bohémienne (forse troppo idealizzata?) alla Yugoslavia comunista. La loro relazione sarà dolorosa, potente ma priva di fronzoli. Il loro amore intenso e al contempo fugace rifletterà i tempi morti e mortiferi di un'Europa disunita e senza colori. Mettiamo subito in chiaro una cosa: Cold War (premiato a Cannes 2018 per la miglior regia e vincitore di ben 5 European Film Awards, i cosiddetti Oscar europei: miglior film, regista, attrice, sceneggiatura e montaggio, selezionato ai premi Oscar 2019 per il miglior film in lingua straniera) è un film tecnicamente perfetto, addirittura sublime dal punto di vista dello stile, per l'eleganza di un bianco e nero nitido e lucente, che si sposa alla perfezione con musiche sussurrate e sognanti, che spaziano dai canti contadini polacchi al jazz (da brividi la scena della protagonista Joanna Kulig che canta suadente Dwa serduszka), con una fotografia da manuale ed inquadrature splendidamente studiate (vedi la bellezza con cui è costruita quella del ballo coreografico di fronte alle gigantografie dei leader sovietici), e da questo punto di vista è indubbiamente grande cinema (di un cinema che fu). Tuttavia la storia, la tormentata vicenda di due musicisti innamorati che si prendono e si lasciano, si rincontrano e si abbandonano, non possono stare insieme, ma nemmeno a fare a meno l'uno dell'altra, rincorrendosi da un capo all'altro dell'Europa degli anni '50 e '60, divisa dalla cortina di ferro, coinvolge fino ad un certo punto, in un'opera che basa il suo innegabile fascino più sulla forma che sul contenuto. Dello stesso regista Pawel Pawlikowski mi aveva molto più emozionato il precedente Ida (con cui vinse la prestigiosa statuetta), dove la perfezione formale si sposava perfettamente ala profondità del contenuto. In Cold War, invece la freddezza del titolo sembra posarsi anche sul suo contenuto, che non raggiunge il livello sublime della sua forma, spegnendo e raffreddando la passione che dovrebbe travolgere i due protagonisti. Nonostante ciò, il risultato finale di Cold War è un risultato di altissima qualità. Una qualità che deve certamente molto alla performance dei due attori protagonisti (bravo è anche Tomasz Kot). Cold War è difatti un film che difficilmente lascia la parola a personaggi satellitari, focalizzandosi piuttosto sul microcosmo di coppia e sul furore che contraddistingue questa relazione fagocitante e morbosa. Parrebbe addirittura che il regista si sia ispirato alla tumultuosa relazione dei suoi genitori, e che per interpretare il ruolo di Zula abbia scelto un'attrice imperscrutabile e sensuale, proprio come la madre.