Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 22/04/2016 Qui - Per 'festeggiare' il mio post numero 200 avevo deciso di vedere un bel film, credo di esserci riuscito a scegliere bene quando ho visto questo film, Foxcatcher: Una storia americana, una storia come tantissime altre che riguardano vittorie, sconfitte, ingiustizie ma soprattutto omicidi, come quello di questa vera storia. Non è la prima volta e non sarà l'ultima che gli americani faranno pellicole sulle loro storie, belle ed agghiaccianti, anche se in questa particolare storia di qualcosa di così sconvolgente non c'è granché. Si vedono spesso al cinema e alla televisione diverse storie, biografiche, autobiografiche o basato su fatti realmente accaduti, come molti film che ho recensito anche recentemente, American Sniper, Whitney, Annie Parker, Selma: la strada per la libertà, The Imitation Game, Big Eyes. Questo specifico film in ambito quasi puramente sportivo, (come due molto belli anche se molto più positive di questa, McFarland, USA e La grande sfida di Gabby, parla di un rapporto psicologico, morboso e complicato, quasi fisico che deteriorandosi porta a infauste conseguenze, anche mortali. Un Biopic diverso dai soliti, in cui l'analisi introspettiva dei personaggi conta più del ritmo narrativo. Un film complesso, in cui il tema del patriottismo e della ricerca di gloria si mischia alle intricate vicende personali dei personaggi. La pellicola tratta infatti della storia vera dell'assassinio del lottatore campione olimpico alle Olimpiadi del 1984 a Los Angeles (di lotta libera) Dave Schultz (interpretato da Mark Ruffalo), avvenuta nel 1996 per mano di John du Pont (interpretato da Steve Carell), della famiglia Du Pont (una delle famiglie più ricche d'America), amico ed allenatore del lottatore. Il film (del 2014) è l'adattamento cinematografico dell'autobiografia Foxcatcher. Una storia vera di sport, sangue e follia scritta nel 2014 da Mark Schultz (Channing Tatum nel film), fratello di David, anch'egli campione olimpico nel 1984. L'autobiografia è stata scritta insieme alla sceneggiatura, quindi molti fatti e situazioni sono uguali, ma non proprio tutte, è stata in parte modificata (cambiando anche molti aspetti della realtà) per rendere più coinvolgente il racconto (senza poi effettivamente riuscirci) e soprattutto comprimerlo in circa due ore. La pellicola che ha partecipato in concorso alla 67ª edizione del Festival di Cannes ha fatto vincere a Bennett Miller il premio come miglior regista. Il film ha anche ricevuto cinque nomination ai Premi Oscar 2015 senza però riuscire a vincerne almeno uno.
Il
film inizia mostrando Mark Schultz alle prese con una
vita ordinaria e riempita solamente dagli allenamenti giornalieri di
lotta libera. Ad aiutarlo c'è il fratello maggiore Dave,
altro grande campione, che prova a tenerlo su di morale e a
incoraggiarlo a impegnarsi sempre di più. Mark (cresciuto all'ombra del più celebre fratello) dà l'idea di essere un
tipo depresso e con pochi interessi: nella sua vita c'è la lotta libera e
nient’altro. Un giorno viene contattato da un collaboratore di un facoltoso milionario, John du Pont, che lo invita a visitare la sua tenuta in
Pennsylvania, che si chiama appunto "Foxcatcher Farm". Costui, erede della dinastia di industriali, vuole costruire un team di lottatori che tenga alto il prestigio degli Usa alle Olimpiadi di Seul del 1988. Lui ne sarà il finanziatore e il coach. Mark vede in questo invito l'occasione per affrancarsi dal fratello maggiore, sperando di potersi concentrare sul suo allenamento e di riuscire finalmente ad uscire dall'ombra del suo venerato fratello, e vede quindi nell'invito dell'eccentrico miliardario la perfetta occasione di rivalsa. Mark incontra du Pont e accetta la sua proposta di diventare lo sponsor della squadra e si trasferisce nella tenuta (nella sua nuova struttura sportiva all'avanguardia), ma deve ben presto accorgersi che Du Pont soffre di disturbi psicologici originati da una totale dipendenza dal giudizio dell'anziana madre. Lui che da sempre cerca di conquistare finalmente il rispetto dei suoi pari e, soprattutto, di sua madre che disdegna ogni sua scelta. Lusingato dalle attenzioni che du Pont gli riserva e incantato dall'opulenza del suo mondo, Mark inizia a considerare il suo benefattore come una figura paterna e a dipendere sempre di più dalla sua approvazione. Benché inizialmente si mostri comprensivo e lo incoraggi, du Pont cambia atteggiamento dando segni di instabilità mentale e spingendo Mark ad adottare uno stile di vita insano che rischia di compromettere il suo allenamento. Quando all'inizio di un film si legge la scritta "Ispirato a fatti realmente accaduti" lo spettatore attento viene assalito dal timore di una ricostruzione cronachistica. Non è quanto accade nel film di Bennett Miller che sa andare oltre i fatti per scavare nella complessità delle psicologie dei protagonisti di una vicenda che vide al centro l'erede della famiglia che, con la vendita di munizioni, costruì un impero a partire dalla Guerra di Secessione. Il regista poi è molto bravo nel trasmettere fin da subito l'atmosfera cupa del film e le tinte fosche di questo torbido ritratto degli USA.
La prima parte del film, che inizia lento e sembra non arrivare mai a un vero e proprio punto di svolta che potrebbe dar vita a scenari più affascinanti di allenamenti di lotta libera e dialoghi scarni, dove escono sì le personalità dei personaggi, ma allo stesso tempo non rendono la storia interessante per uno spettatore, si concentra sul trasferimento di Mark nella tenuta, dove du Pont gli offre ogni risorsa necessaria per allenarsi e per vivere in una dependance. Il rapporto tra i due è difficile da decifrare, sono entrambi molto taciturni e parlano quasi esclusivamente della lotta libera, du Pont è imperturbabile ma si percepisce comunque un suo grande interesse per Mark. Non sessuale però come nella realtà il vero Mark ha negato, solo psicologico, patriarcale e amichevole. Il campione è tanto possente fisicamente quanto fragile psicologicamente e proprio per questo, seppur con qualche reticenza, pronto a mettersi al servizio di chi gli prospetta un grande futuro, disperatamente bisognoso di amicizia ma, soprattutto, di una figura paterna. John du Pont è un reazionario psicopatico che cerca, senza mai trovarla, l'approvazione dell'anziana genitrice. Il suo rapporto con Mark diviene progressivamente morboso, il ragazzo deve conquistare i trofei che a lui, mai realmente cresciuto, la vita ha negato. Questo però non gli impedisce di avviarlo all'uso della cocaina e poi, dubitando dei risultati, dal riproporgli la presenza di un fratello temuto proprio perché consapevole della serietà che è richiesta per conseguire l'eccellenza in qualsiasi campo (e in particolare in quello sportivo). La progressione verso l'abisso è inevitabile, la lotta contro il malessere esistenziale si rivela molto più insidiosa di quella affrontata in una palestra, alla fine non ci sono vincitori ma solo sconfitti. In questo triangolo psicologico, David (M. Ruffalo) è la figura di equilibrio, posato e responsabile (è, infatti, sempre raffigurato ingobbito, ancor più del fratello, quasi sostenesse un grande peso sulle spalle) con una famiglia sua che lo segue. Ottimo atleta, ancor migliore coach, forte e centrato in sé, tanto da influenzare tutto l'ambiente e le persone intorno. Capisce e motiva il fratello come nessun altro (è lui, infatti, il primo a volersene distaccare) ma, allo stesso tempo, intuisce la morbosità del rapporto di Mark col suo sponsor, col quale lui invece negozia alla pari nonostante la differenza sociale. Ma la figura che si staglia su tutto, più un'ombra che un'aquila come ama soprannominarsi lui stesso, è John E. Dupont, ricco industriale di famiglia patrizia, ornitologo, filatelico, filantropo, patriota, ma anche enigmatico, paranoico e schizofrenico. Finanziatore di sportivi e di opere benemerite, ma anche collezionista di armi e carri armati che usa come fossero trenini.
Steve Carell (in versione del tutto inedita) è il protagonista perfetto, cupo e umorale, perennemente condizionato dallo sguardo severo della madre (piccola ma significativa parte della Redgrave) e dalla nomea della sua famiglia. All'eterna ricerca del riconoscimento altrui (stima, amicizia e amore: le prede che cerca disperatamente) anche a costo di doverlo comprare. Questo triangolo si inserisce, chiudendo il cerchio iniziale, nella Storia Americana (peraltro il sottotitolo del film con innumerevoli riferimenti alla Guerra di Indipendenza), in questo eterno gioco di una nazione (non solo gli USA) che ha bisogno di eroi (militari, sportivi, artistici), li onora e li ama, ma allo stesso tempo li compra, li fagocita e li uccide. Un Capitalismo buonista e solo apparentemente progressista, che esorcizza e giustifica la ricchezza di una élite ricca nei confronti di una massa che ha il riscatto sociale come obiettivo primario: il Sogno Americano come difesa di un sistema sempre più insostenibile. Foxcatcher appare molto più complesso di una semplice epica sportiva. Si tratta comunque di un film più che buono e ricco di interpretazioni davvero notevoli e sorprendenti. I truccatori però, sono la punta di diamante di questa pellicola, in cui ogni persona è stata trasformata in modo perfetto per assomigliare al riferimento della storia reale. Troviamo un Channing Tatum abbruttito nel fisico e nei tratti somatici. Un Mark Ruffalo stempiato e uno Steve Carell quasi irriconoscibile, con un naso reso ancora più grande e tante rughe aggiunte sul viso per assomigliare in modo straordinario al vero Du Pont. Proprio quest'ultimo è il punto cardine di una sceneggiatura in cui le sequenze scorrono lente e inesorabili, in un tempo lungo dal punto di vista storico, ma allo stesso tempo infinitamente corto per il suo essere passato nella grande tenuta di un milionario con qualche rotella fuori posto. Il rapporto con la madre che ricorda Psycho, l'ambiguità sessuale verso i suoi allievi, il patriottismo e la voglia di emergere come allenatore di uno sport minore, in cui poter essere un nome importante. Tutto ciò condito da una instabilità morale e un senso di paranoia continuo che lo porta a fare scelte particolari, a essere pericoloso nei modi di fare, misterioso nei discorsi. Proprio l'interpretazione di Carell rende il film degno di essere visto, ma non si può certo dire che sia una pellicola da meritare Oscar. Ritmi troppo lenti per creare la suspense necessaria al tragico finale e nessuna scena di rilievo che possa far cambiare idea. Proprio l'omicidio è un punto cardine (diverso nei tempi dalla realtà), avvenne dopo anni e non mesi dalla partenza di Mark come si vede nella pellicola, e la sua cattura non fu così repentina come si vede, ci vollero due giorni. La scena finale poi è quasi falsa, difatti non cominciò una carriera da lottatore, combatté solo quella volta, iniziò invece una carriera come allenatore presso la Brigham Young University di Provo, nello Utah. Comunque non so perché questo film abbia avuto così successo, ma probabilmente è tutto dovuto alla bravura dei tre attori, (Mark Ruffalo e Channing Tatum, oltre a Carell, dimostrano di essere dei grandi attori e di saper reinterpretare alla perfezione i due fratelli Schultz, con dialoghi semplici, ma con una mimica perfetta per rappresentare i due atleti), ma anche al loro modo di recitare una vicenda talmente strana da risultare quasi senza senso e fascino dal punto di vista cinematografico. Un film diverso da tanti del suo genere ma altrettanto bello da vedere. Voto: 6,5
La prima parte del film, che inizia lento e sembra non arrivare mai a un vero e proprio punto di svolta che potrebbe dar vita a scenari più affascinanti di allenamenti di lotta libera e dialoghi scarni, dove escono sì le personalità dei personaggi, ma allo stesso tempo non rendono la storia interessante per uno spettatore, si concentra sul trasferimento di Mark nella tenuta, dove du Pont gli offre ogni risorsa necessaria per allenarsi e per vivere in una dependance. Il rapporto tra i due è difficile da decifrare, sono entrambi molto taciturni e parlano quasi esclusivamente della lotta libera, du Pont è imperturbabile ma si percepisce comunque un suo grande interesse per Mark. Non sessuale però come nella realtà il vero Mark ha negato, solo psicologico, patriarcale e amichevole. Il campione è tanto possente fisicamente quanto fragile psicologicamente e proprio per questo, seppur con qualche reticenza, pronto a mettersi al servizio di chi gli prospetta un grande futuro, disperatamente bisognoso di amicizia ma, soprattutto, di una figura paterna. John du Pont è un reazionario psicopatico che cerca, senza mai trovarla, l'approvazione dell'anziana genitrice. Il suo rapporto con Mark diviene progressivamente morboso, il ragazzo deve conquistare i trofei che a lui, mai realmente cresciuto, la vita ha negato. Questo però non gli impedisce di avviarlo all'uso della cocaina e poi, dubitando dei risultati, dal riproporgli la presenza di un fratello temuto proprio perché consapevole della serietà che è richiesta per conseguire l'eccellenza in qualsiasi campo (e in particolare in quello sportivo). La progressione verso l'abisso è inevitabile, la lotta contro il malessere esistenziale si rivela molto più insidiosa di quella affrontata in una palestra, alla fine non ci sono vincitori ma solo sconfitti. In questo triangolo psicologico, David (M. Ruffalo) è la figura di equilibrio, posato e responsabile (è, infatti, sempre raffigurato ingobbito, ancor più del fratello, quasi sostenesse un grande peso sulle spalle) con una famiglia sua che lo segue. Ottimo atleta, ancor migliore coach, forte e centrato in sé, tanto da influenzare tutto l'ambiente e le persone intorno. Capisce e motiva il fratello come nessun altro (è lui, infatti, il primo a volersene distaccare) ma, allo stesso tempo, intuisce la morbosità del rapporto di Mark col suo sponsor, col quale lui invece negozia alla pari nonostante la differenza sociale. Ma la figura che si staglia su tutto, più un'ombra che un'aquila come ama soprannominarsi lui stesso, è John E. Dupont, ricco industriale di famiglia patrizia, ornitologo, filatelico, filantropo, patriota, ma anche enigmatico, paranoico e schizofrenico. Finanziatore di sportivi e di opere benemerite, ma anche collezionista di armi e carri armati che usa come fossero trenini.
Steve Carell (in versione del tutto inedita) è il protagonista perfetto, cupo e umorale, perennemente condizionato dallo sguardo severo della madre (piccola ma significativa parte della Redgrave) e dalla nomea della sua famiglia. All'eterna ricerca del riconoscimento altrui (stima, amicizia e amore: le prede che cerca disperatamente) anche a costo di doverlo comprare. Questo triangolo si inserisce, chiudendo il cerchio iniziale, nella Storia Americana (peraltro il sottotitolo del film con innumerevoli riferimenti alla Guerra di Indipendenza), in questo eterno gioco di una nazione (non solo gli USA) che ha bisogno di eroi (militari, sportivi, artistici), li onora e li ama, ma allo stesso tempo li compra, li fagocita e li uccide. Un Capitalismo buonista e solo apparentemente progressista, che esorcizza e giustifica la ricchezza di una élite ricca nei confronti di una massa che ha il riscatto sociale come obiettivo primario: il Sogno Americano come difesa di un sistema sempre più insostenibile. Foxcatcher appare molto più complesso di una semplice epica sportiva. Si tratta comunque di un film più che buono e ricco di interpretazioni davvero notevoli e sorprendenti. I truccatori però, sono la punta di diamante di questa pellicola, in cui ogni persona è stata trasformata in modo perfetto per assomigliare al riferimento della storia reale. Troviamo un Channing Tatum abbruttito nel fisico e nei tratti somatici. Un Mark Ruffalo stempiato e uno Steve Carell quasi irriconoscibile, con un naso reso ancora più grande e tante rughe aggiunte sul viso per assomigliare in modo straordinario al vero Du Pont. Proprio quest'ultimo è il punto cardine di una sceneggiatura in cui le sequenze scorrono lente e inesorabili, in un tempo lungo dal punto di vista storico, ma allo stesso tempo infinitamente corto per il suo essere passato nella grande tenuta di un milionario con qualche rotella fuori posto. Il rapporto con la madre che ricorda Psycho, l'ambiguità sessuale verso i suoi allievi, il patriottismo e la voglia di emergere come allenatore di uno sport minore, in cui poter essere un nome importante. Tutto ciò condito da una instabilità morale e un senso di paranoia continuo che lo porta a fare scelte particolari, a essere pericoloso nei modi di fare, misterioso nei discorsi. Proprio l'interpretazione di Carell rende il film degno di essere visto, ma non si può certo dire che sia una pellicola da meritare Oscar. Ritmi troppo lenti per creare la suspense necessaria al tragico finale e nessuna scena di rilievo che possa far cambiare idea. Proprio l'omicidio è un punto cardine (diverso nei tempi dalla realtà), avvenne dopo anni e non mesi dalla partenza di Mark come si vede nella pellicola, e la sua cattura non fu così repentina come si vede, ci vollero due giorni. La scena finale poi è quasi falsa, difatti non cominciò una carriera da lottatore, combatté solo quella volta, iniziò invece una carriera come allenatore presso la Brigham Young University di Provo, nello Utah. Comunque non so perché questo film abbia avuto così successo, ma probabilmente è tutto dovuto alla bravura dei tre attori, (Mark Ruffalo e Channing Tatum, oltre a Carell, dimostrano di essere dei grandi attori e di saper reinterpretare alla perfezione i due fratelli Schultz, con dialoghi semplici, ma con una mimica perfetta per rappresentare i due atleti), ma anche al loro modo di recitare una vicenda talmente strana da risultare quasi senza senso e fascino dal punto di vista cinematografico. Un film diverso da tanti del suo genere ma altrettanto bello da vedere. Voto: 6,5