venerdì 29 novembre 2019

Molly's Game (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 29/11/2019 Qui
Tema e genere: Basato sul libro scritto da Molly Bloom (Molly's Game: From Hollywood's Elite to Wall Street's Billionaire Boys Club, My High-Stakes Adventure in the World of Underground Poker), il film (un thriller biografico drammatico) è l'esordio registico dello sceneggiatore Aaron Sorkin (suoi sono i testi di The Social Network e L'arte di vincere, tanto per fare esempi recenti).
Trama: Una donna costretta a cambiare carriera inizia a organizzare partite di poker tra giocatori milionari, ma a un certo punto il gioco le sfugge di mano.
Recensione: Esordio alla regia di Aaron Sorkin, già apprezzatissimo sceneggiatore, dietro, solo per citare l'ultimo in ordine di tempo, allo Steve Jobs di Danny BoyleMolly's Game è un film perfettamente riuscito che contiene tutti i suoi marchi di fabbrica già presenti nelle sceneggiature dirette da altri: poca azione, tanti dialoghi, spesso arguti e taglienti, personaggi ben definiti e caratterizzati (in questo caso interpretati da attori bravissimi). Basato sul libro della stessa protagonista, Molly's Game è un film che ha molto meno a che fare col poker di quanto non ne abbia con la voglia e la capacità di descrivere la vita, fatta di solitudine, di una donna che cerca di realizzarsi in un mondo di uomini, e finisce per rincorrere solo il denaro, diventare schiava della droga e venir abbattuta e abbandonata da quel sistema al quale si era solo illusa di poter sfuggire. Nonostante sia scritto da un uomo, grazie anche al materiale d'origine, il film (che è sì la classica storia americana di ascesa caduta e rinascita, ma non solo) si dimostra insomma in grado di tratteggiare un finissimo ritratto delle tribolazioni a cui va incontro una donna in un mondo, fondamentalmente, maschilista. Una donna (splendidamente interpretata da Jessica Chastain) che vuole essere libera, indipendente, e non soggiogata al potere di un uomo, di cui non crede di aver bisogno per realizzarsi e avere successo (pur esibendo per tutto il film una sfilza di décolleté da far girare la testa). Seppur il film, in alcune sue parti, si possa definire "poco cinematografico", rimane comunque una storia interessante, anche avvincente, raccontata in maniera egregia per mezzo di uno script come al solito iperdialogato ma che riesce ad evitare la saturazione e la noia, mantenendo invece ben alta la tensione per oltre due ore di durata (cosa che si deve, probabilmente, anche al montaggio). Già questo non è cosa da poco. Ma come se non bastasse ad alzare di livello il film sono anche, senz'altro, come già accennato, le eccellenti prove degli attori (non solo Jessica Chastain, che dopo Miss Sloane, tratteggia mirabilmente un nuovo personaggio femminile forte e indipendente, ma anche, almeno, Idris Elba). La costruzione narrativa è solida e non cede quasi mai (salvo, talvolta, nei flashback riguardanti il rapporto col padre, interpretato da Kevin Costner, e in particolare, nell'incontro finale con lo stesso, un po' troppo melenso e strappalacrime), ma, essendo il film basato su una storia vera, anche la lieta fine, altrimenti assolutamente improbabile, un po' inaspettata, non appare troppo forzata. A conti fatti, un buon esordio che suggerisce un nuovo brillante futuro per l'autore in veste di regista-sceneggiatore.

Il viaggio (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 29/11/2019 Qui
Tema e genere: Film drammatico diretto da Nick Hamm che racconta la genesi dello storico accordo siglato da Ian Paisley e Martin McGuinness che nel 2007 scriverà la parola fine sul sanguinoso conflitto nei territori dell'Irlanda del Nord.
Trama: Nell'ambito di un incontro realmente avvenuto tra l'anziano pastore leader della fazione protestante e quello della parte cattolica, considerato fino a poco prima un vero e proprio terrorista in capo all'IRA, gli sceneggiatori ipotizzano cosa potrebbe essere accaduto tra i due leader se una circostanza fortuita li avesse visti costretti a convivere per qualche tempo in un unico spazio ristretto. Ecco che dunque un abile stratega al soldo del Primo Ministro inglese inscena la necessità di convogliare per il ritorno a casa del leader protestante in un volo organizzato di fortuna a seguito del blocco dei trasporti aerei causa maltempo. E fa sì che il leader cattolico offra un passaggio all'altro suo "nemico" giurato. Nel viaggio lungo un'ora sono riposte tutte le pur flebili speranze per il raggiungimento dell'intesa.
Recensione: Il film è una divertente commedia, non priva di forzature e ingenuità, magari non particolarmente ricca di sfumature, ma che restituisce in modo efficace l'elemento comico che sta al cuore del dramma. Visti da fuori, anche i conflitti peggiori e più insanabili hanno un che di ridicolo, specie se rimangono fondati su barricate mentali le cui radici affondano ormai largamente nel passato. In genere i protagonisti di tali conflitti non sono capaci di guardare al futuro, e mantengono un'ostinazione incomprensibile a tutti quelli che li circondano (nel nostro caso, preoccupati di far parlare Paisley e McGuinness vediamo i governi irlandese e britannico, e i rispettivi primi ministri). C'è comunque un equivoco che occorre sfatare. Leggendo di questo film prima di vederlo, vi farete l'idea che entrambi i protagonisti, in partenza, si rifiutino di dialogare. Non è così: è Paisley che non vuole dialogare. McGuinness, al contrario, è consapevole della necessità di cooperare con l'avversario. E questo non solo è vero storicamente, ma corrisponde anche all'attitudine politica dei rispettivi partiti almeno a partire da fine anni '90. Di conseguenza il film è concentrato in realtà soprattutto sulla figura di Ian Paisley, che è l'autentico protagonista. E l'interpretazione caricaturale che ne dà il grande Timothy Spall è perfetta nel rendere grottesca (oltre che buffa) la sua testardaggine iniziale, ma anche poi verosimile un processo di "conversione" apparentemente quanto mai improbabile. Perciò, seppure lo spettatore sa come andrà a finire, è dal divario fra esito e premesse che scaturisce sin da subito la curiosità con cui si segue il film. Un film non di certo destinato a entrare negli annali del cinema, e avrebbe potuto anche essere un film migliore in altre mani: del resto lo spunto si prestava a rese differenti. La regia di Hamm è piuttosto piatta, manca di personalità, e resta soprattutto al servizio di una sceneggiatura buona, ma non poi così ambiziosa. Sono limiti tuttavia che non si fatica a perdonare, a un'opera che nonostante sia tutta parlata non annoia e che riesce nel suo intento di base, che è far riflettere, divertendo, sulla piccineria umana (da cui nascono le tragedie), e su quanto rimanga, purtroppo, un fatto eccezionale quel gesto di semplice intelligenza che occorre a superare la meschinità individuale in nome del bene comune.

Capitano Koblic (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 29/11/2019 Qui
Tema e genere: Un thriller drammatico che ha come tema la dittatura argentina tra il 1976 e il 1983.
Trama: Nel 1977, durante la dittatura argentina, un ex pilota della Marina disobbedisce agli ordini e diventa un ricercato. Decide allora di nascondersi in una piccola città del sud, dove la sua presenza catturerà presto l'attenzione di un violento maresciallo senza scrupoli.
Recensione: Il dramma dei desaparecidos è raccontato attraverso una storia a mezza strada tra un noir e un western. Al centro della vicenda un uomo di origine polacche che fugge (giustamente) dall'orrore della dittatura argentina perché rifiutatosi di scaricare persone narcotizzate, ancora vive, in mezzo all'oceano. Ma se il passato potrebbe non fare sconti, anche il presente potrebbe (la meschinità umana, interpretata qui da Oscar Martinez, e non solo, mai svanisce), figuriamoci il futuro. Dopo essersi imposto negli anni Ottanta e Novanta come produttore e sceneggiatore argentino di serie televisive tra i più prolifici, Sebastian Borenzstein si cimenta nella regia cinematografica. Sugli schermi italiani è noto per Cosa piove dal cielo? con cui ottiene il premio Goya, l'equivalente spagnolo degli Oscar. Sullo sfondo di una delle pagine più buie della Storia argentina, Capitano Koblic pur prediligendo la scrittura di genere del noir (anche se in modo leggero), non perde di vista l'importanza della tematica affrontata (anche se tende spesso a divagare dalla suddetta), quella appunto de "I voli della morte". Un crimine di lesa umanità, uno dei modi più aberranti utilizzati per uccidere prigionieri politici e non, come si legge dallo sconcertante incipit del film, un film che, dalla fattura classica, per la scelta di una narrazione lineare, privilegia la caratterizzazione dei personaggi rispetto al ritmo (azzeccata la scelta del cast, in particolare di Ricardo Darìn nei panni della figura positiva del comandante, che rifiuta di aprire il portellone del proprio aereo, prendendosi il tempo di descrivere quel clima di terrore e prevaricazione). Aiuta poi la scelta di un paesaggio desolato e isolato, dove si consumano rapporti di forza sul piano sociale, e quella delle vicende private dei personaggi (la giovane donna, interpretata dalla bella Inma Cuesta, costretta ad accettare una relazione incestuosa), in cui ognuno, a proprio modo, è responsabile del proprio agire. Il risveglio della coscienza di un uomo è il risveglio di una nazione. I personaggi assumono una valenza simbolica e austera in un clima teso e opprimente. Il finale (che offre una speranza alla ribellione) è un lampo di luce. E così il film appassiona (degnamente) ed emoziona (sconcertando a più riprese). Certo, non sempre la sceneggiatura riesce a disegnare personaggi secondari all'altezza, certo, la storia d'amore pare non molto funzionale e persino forzata, certo, si poteva fare meglio, ma film interessante (storicamente e non) è questo.

Lo scandalo Kennedy (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 29/11/2019 Qui
Tema e genere: All'infinita saga cinematografica sui Kennedy si aggiunge un nuovo tassello, diretto da John Curran su sceneggiatura di Taylor Allen e Andrew Logan. Un film che ricostruisce l'episodio che rischiò di compromettere la carriera dell'ultimo rampollo del patriarca Joe, qui mostrato (interpretato da Bruce Dern) anziano e malato, ma ancora cinico e duro.
Trama: La vita e la carriera politica del ventottenne senatore Ted Kennedy deragliano a seguito del discutibile incidente stradale che nel 1969 costa la vita a Mary Jo Kopechne, giovane stratega della sua campagna elettorale.
Recensione: Le storie sui presidenti americani ormai fanno parte di un filone a sé, tanti potrebbero essere gli esempi, sottogruppo del filone è quello sui presidenti mancati, Vice, il presidente occulto che non riuscì a diventare il presidente effettivo, The Front Runner (che però devo ancora vedere), il presidente in pectore che non ottenne la candidatura perché travolto dal gossip, ed ora Lo scandalo Kennedy, che è precedente ad entrambi, e sono tutte particolarmente interessanti da scoprire e vedere (soprattutto se non si conoscono certe storie). Lo è anche questo, che mette al centro della scena il meno immediato nel nostro immaginario: Ted, il fratello superstite, il leone del Senato. Morti John e Bobby, Ted divenne il capofamiglia, pur essendo ancora vivo benché agonizzante il feroce patriarca Joseph. Stimatissimo da tutti, Ted non riuscì a prendere possesso della Casa Bianca perché nel 1969 fu coinvolto in un tragico scandalo che gli stroncò le ambizioni presidenziali. Egli infatti a seguito di un incidente finì in acqua assieme alla passeggera, una giovane stratega che morì, e pensò male di non denunciare subito l'accaduto. La pellicola così, con un taglio semi-documentaristico (perché ovvio che per quanto sia verosimile la ricostruzione, degli eventi, basata su un meticoloso e rigoroso studio di articoli di giornale e trasmissioni dell'epoca, comunque va letta col benefico del dubbio, come in questi casi è doveroso fare), prova a raccontare quel tragico evento, mettendo soprattutto in evidenza la pochezza morale e caratteriale del senatore. Ambizioso come tutti i Kennedy sarebbe probabilmente stato disposto a mentire, pur di non compromettere la sua carriera, se gli eventi non lo avessero sopraffatto e travolto. Subito dopo il fattaccio, Ted si rivolse al padre, cercando conforto e consigli, ma il vecchio patriarca colpito da un ictus e con evidente afasia, riuscì comunque ad esprimergli tutto, il suo disappunto e disprezzo. E insomma ricostruzione di un fatto storico, l'ennesimo che riguarda da vicino la famiglia Kennedy, un fatto che, seppur decisamente sbilanciato sul versante soggettivo-biografico che quello storico-massmediologico, riesce a coinvolgere ed avvincere al punto giusto. Certo, non ci sono guizzi particolari, la storia è lineare, ma questo film, questo Chappaquiddick (titolo originale che si riferisce al paesino marittimo in cui accadde il fattaccio), comunque da vedere, anche solo per recuperare un fatto non noto o dimenticato vista la coincidenza dell'episodio con l'allunaggio (siamo nel luglio 1969), è un film decisamente interessante e riuscito, ciò anche grazie ad interpreti (in origine è un Tv-movie) di buon livello.

giovedì 28 novembre 2019

Most Beautiful Island (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 28/11/2019 Qui
Tema e genere: Sospeso tra thriller psicologico, dramma e film di denuncia sociale, Most Beautiful Island racconta la storia di Luciana, una giovane donna spagnola immigrata a New York, con alle spalle un lutto che non ha ancora superato, che si ritrova inavvertitamente protagonista di un crudele gioco in cui vengono messe a rischio delle vite per l'intrattenimento perverso di pochi privilegiati.
Trama: Luciana, una giovane donna immigrata a New York, si sforza di sbarcare il lunario mentre tenta di sfuggire al proprio passato. Come ogni giorno, affronta una serie di problematiche e imprevisti quando, prima che la sua giornata sia finita, un lavoro si trasforma in qualcosa di stranamente ambiguo.
RecensioneMost Beautiful Island segna il claustrofobico esordio alla regia di Ana Asensio e tocca temi forti e delicati come la condizione degli immigrati e lo sfruttamento dei più deboli, tralasciando però qualcosa che andava approfondito. Della storia si è già detto, e comunque il tutto porterà (per colpa della sua amica Olga, Natasha Romanova) ad un luogo in cui la ragazza correrà un insospettabile pericolo. Da qui inizia forse la scena più bella di un film che, comunque, non convince fino in fondo, con la tensione che aumenta esponenzialmente avvicinandosi alla scoperta del reale fine della festa: nessuno dice nulla alla protagonista, mentre le altre donne presenti in questo scantinato newyorkese asettico e spoglio entrano, a turno, in una stanza, con la porta che si richiude alle loro spalle, cui fanno seguito applausi o urla. Luciana cerca di capire cosa c'è in quella borsetta chiusa ermeticamente che le hanno dato, e quel lavoro che le frutterà 2000 dollari rimane misterioso fino a quando non lo dovrà affrontare, senza poter ormai più scappare né tirarsi indietro. Luciana ha con sé un dolore: qualcuno, probabilmente sua figlia, non c'è più, lei non è a New York solo per lavoro, ma per fuggire da un passato che vuole dimenticare e lasciarsi alle spalle. Il film cerca di mettere in scena sia la solitudine di una donna che non sa come sopravvivere in una città sconosciuta dove non ha nessuno, sia l'elaborazione del lutto per aver perso una delle persone più importanti della sua vita. Di questo Luciana si sente responsabile, forse per essere ancora viva mentre sua figlia non lo è più. Tuttavia la questione non è chiara, e sapere qualcosa in più sul passato di Luciana avrebbe arricchito il film e il personaggio: cosa ha perso? E cosa cerca? Troppe le domande che vengono lasciate senza risposta, tra cui quella su cosa l'esordiente (alla regia) Ana Asensio voglia realmente dire. Luciana probabilmente capisce qualcosa di sé nel corso della storia, ma non è chiaro se riesca a trovare quello che cerca o a sentirsi nuovamente viva attraverso quella terribile esperienza, tanto da domandarsi se ciò che cercasse davvero fossero effettivamente quei 2000 dollari. Suspense a parte, il lungometraggio della Asensio ha l'ambizione di dare un senso di amarezza, ma lo fa attraverso l'utilizzo di espedienti banali, per suscitare una reazione forte nello spettatore, che distraggono dalla poca efficacia del film.

Red Joan (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 28/11/2019 Qui
Tema e genere: Diretto da Trevor Nunn il film è tratto dal romanzo di Jennie RooneyLa ragazza del KGB, a sua volta ispirato all'incredibile storia vera di Melita Norwood, scoperta colpevole di spionaggio contro l'Inghilterra a più di ottant'anni, e per questo chiamata "nonna spia". La catena di ispirazioni ha quindi prodotto un film che, con una spolverata leggera di thriller, affonda le radici nel genere romantico e sentimentale.
Trama: La storia di Joan Stanley che, nata inglese ma simpatizzante del partito comunista e dell'Unione Sovietica, divenne funzionaria del governo britannico per essere poi reclutata come spia dal KGB a metà degli anni Trenta del Novecento e che riuscì a trasferire segreti militari e politici mantenendo la sua identità segreta per oltre mezzo secolo.
Recensione: L'ambientazione di Red Joan ci riporta al tempo della II guerra mondiale in Inghilterra, con scenari e atmosfere simili a quelle di The Imitation Game. Anche qua al centro della vicenda ci sono un gruppo di scienziati che lavorano a progetti segretissimi: prima per contrastare l'asse tedesco-giapponese, poi per conquistare una supremazia sul blocco dominato dall'Unione Sovietica. Con un gioco di continui flashback il film alterna la cronaca dell'arresto dell'anziana Joan Stanley, con le scene di gioventù, quando la donna prima facente parte di un ristretto gruppo di fisici si fece manipolare da molti e successivamente divenne una spia. I presupposti per un thriller ad alta tensione c'erano quindi tutti, ma la mancanza di verve e l'eccessiva linearità l'hanno affossato. Perché sulla carta Red Joan doveva essere un film tra il dramma sentimentale e la storia concitata di spionaggio ma si è rivelato essere un film già visto e assai noioso. Un po' perché la regia di Trevor Nunn è anonima, un po' perché lo spettatore sa già dove andrà a parare il film. Anche il tema femminista del film è trattato senza verve, così come la sceneggiatura sembra un po' indecisa se presentarci Joan come una vittima delle manipolazioni del belloccio di turno o come una donna indipendente, che rischia tutto perché crede nella pace data dall'equilibrio atomico. Judi Dench, anche se confinata quasi esclusivamente nelle scene al commissariato dopo l'arresto, recita con l'usuale bravura e credibilità, la Cookson dà il meglio di sé nelle scene iniziali, quando si presenta per la ragazza intelligente ma poco avvezza alle cose di mondo, in compenso le scene di flashback risultano presto abbastanza ripetitive e confinate sempre in ambienti ristretti, i personaggi di contorno molto stereotipati e anche le motivazioni di Joan e dei suoi accusatori vengono ripetute senza eccessiva convinzione. Da una storia vera di questo livello, nella quale sono state in gioco milioni di vite umane, sarebbe stato lecito aspettarsi un thriller coi fiocchi, invece così, senza alcuna tensione, né almeno un tentativo di respiro epico (il confronto con altri film di genere, come ad esempio Il ponte delle spie, è impietoso), la montagna partorisce il classico topolino: un raccontino intorno al caminetto, quello messo in scena dal regista Trevor Nunn (più noto per le regie teatrali, e più impegnato con film tv che al cinema), con tazzine e centrini ricamati, nel quale tutto sembra superfluo, a partire (purtroppo) dal talento di Judi Dench.

L'eroe (2019)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 28/11/2019 Qui
Tema e genere: L'opera prima di Cristiano Anania con protagonista Salvatore Esposito, racconta la parabola della debolezza umana divisa tra etica e interesse.
Trama: Giorgio è un mediocre ma ambizioso giornalista trentenne. La sua vita cambia bruscamente quando il direttore del giornale decide di trasferirlo in una redazione di provincia. Proprio quando crede di aver trovato la sua nuova dimensione di vita, il direttore del giornale annuncia a Giorgio il suo licenziamento. Solo lo scioccante rapimento per mano di ignoti del nipote del più importante imprenditore locale restituirà a Giorgio il suo lavoro di corrispondente.
Recensione: Bisogna innanzitutto dire che questo ambizioso giallo dalle tinte noir, non convince propriamente del tutto, e poi bisogna dire che quel non del tutto non basta a salvare il film, come non basta la bravura ed il talento di attore di Salvatore Esposito. Quest'ultimo infatti, che si porta il film sulle spalle, è sicuramente efficace nel disegnare per sottrazione un personaggio alquanto enigmatico, chiuso, però non per questo poco comunicativo o noioso, peccato che il film per quanto permeato di idee ed intenzioni anche interessanti, alla fin fine non dona assolutamente nulla allo spettatore, se non confusione, disagio e perplessità di fronte ad un iter narrativo confuso e ben poco strutturato. Di base il problema più grosso di L'eroe è proprio nel manico, nella regia che appesantisce e soffoca una sceneggiatura di per sé non esattamente raffinata o ben strutturata, piena (per carità) di buone intenzioni che però rimangono tali. I personaggi sono tutti alquanto prevedibili, forzati, le situazioni narrative, i dialoghi appaiono sovente illogici e non approfonditi, la stessa messa in scena di per sé assomiglia a certi prodotti televisivi di scarso valore che ammorbano i nostri palinsesti. Il tutto sicuramente viene poi appesantito da una colonna sonora alquanto roboante e che sa di déjà-vu ogni minuto che passa, vanificando il bel montaggio e la fotografia. Il cast si muove quasi sempre con passo malfermo: d'altronde è difficile, da personaggi così scarni, trarre una qualsivoglia performance che ne esalti un contenuto che, in questo caso, manca già di partenza. Abbiamo la giovane bella ed ingenua (Marta Gastini, non nuova a film mediocri, come Bentornato Presidente), la donna di potere severa e mentitrice (Cristina Donadio, direttamente da Gomorra insieme al protagonista), la madre fragile (la Tiziana, Enrica Guidi de I delitti del BarLume), il meridionale pigro (Fabio Ferrari, storico protagonista de I ragazzi della 3ª C), lo scemo del villaggio (Vincenzo Nemolato), il capo malvagio (il sempre bravo Paolo Sassanelli), i carabinieri altezzosi e inefficienti (uno di questi interpretato da Pino Quartullo). Poco o nulla di nuovo sotto il sole.

Alla fine ci sei tu (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 28/11/2019 Qui
Tema e genere: Agrodolce commedia romantica sul senso del tempo e della vita.
Trama: La vita di Calvin (un ragazzo ipocondriaco, Asa Butterfield) viene stravolta quando incontra Skye (Maisie Williams) un'adolescente che soffre di una malattia terminale. La sua nuova amica lo assume per aiutarla a completare la sua lista di cose da fare prima di morire, una missione che lo costringerà ad affrontare le sue peggiori paure, e a vivere in maniera nuova l'innamoramento con la bella ma apparentemente instabile Izzy (Nina Dobrev).
RecensioneAlla fine ci sei tu è un film abbastanza intenso, toccante e commovente, da meritare apprezzamenti. Un film che non scivola (quasi) mai in inutili pietismi, evitando (quasi sempre) eccessi d'enfasi e retorica. Una storia quindi emozionante, divertente e commovente al contempo, inno all'amicizia e che celebra il senso profondo della vita. E' soprattutto, infatti, una storia di un'amicizia insolita e poco convenzionale, specie nel modo in cui scaturisce, in un malinteso di fatto e ancor più, si sviluppa, con diversi momenti simpatici, in cui fanno capolino i divertenti confronti-scontri, con i due poliziotti dal cuore tenero. Quanto più la pellicola procede, tanto più il film perde la sua connotazione leggera, collocando sullo sfondo il black humour della prima parte, acquisendo un tono decisamente più drammatico, facendo emergere l'aspetto introspettivo del racconto. Un racconto (di formazione) nel suo complesso godibile, perché discretamente tratteggiato e perciò capace di non annoiare né di lasciarsi andare a buonismi fastidiosi, dal buon impatto emotivo, ben interpretato e ben girato, che ci rammenta, come conti di più la qualità del tempo che abbiamo a disposizione, piuttosto che la sua durata. E quindi qual è il problema del film? E' che di originale ha ben poco, anzi, molte situazioni sembrano ricalcare quel gioiellino che era Quel fantastico peggior anno della mia vita, altre sembrano ricalcare i molti classici film di formazione della cinematografia statunitense degli ultimi anni, altre le classiche commedie romantiche giovanili. Insomma tutto già visto, e in misura forse migliore. Certo, ci sono alcune differenze, ma la base è quella, finale compreso. E così nonostante il film riesca ad intrattenere, e nonostante si lasci vedere, non riesce a distinguersi, risultando così solo un film sì carino ma facilmente (troppo facilmente) dimenticabile.

lunedì 25 novembre 2019

Stalker (1979)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 25/11/2019 Qui
Tema e genere: Film di fantascienza del 1979 diretto da Andrej Tarkovskij, liberamente tratto dal romanzo Picnic sul ciglio della strada (1971) dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij. Come già per Solaris, la pellicola rappresenta una personale interpretazione di Tarkovskij dello scritto originale.
Trama: Un meteorite caduto sulla terra ha prodotto strani fenomeni in una zona, prontamente protetta e recintata dall'esercito. Per entrarci esistono però delle guide clandestine, chiamate "Stalker", capaci di condurre chiunque lo richieda fino alla "camera dei desideri". Uno scrittore, uno scienziato e uno stalker partono verso la misteriosa zona. Ne torneranno profondamente cambiati.
Recensione: Un film di fantascienza che della fantascienza ha tutti i dettagli meno che il ritmo e tanti intermezzi. Più che altro possiamo definirlo un film d'autore, tutto ciò che consegue la categoria penso sia superfluo indicarlo, sostanzialmente si può sintetizzarlo come: non per tutti. In Stalker infatti, Andrej Tarkovskij torna di nuovo ad approfondire le tematiche fondamentali che hanno caratterizzato tutta la sua opera. Il proseguo difatti, più che di fantascienza, lo si può definire thriller, thriller dell'anima: il ricco e superficiale scrittore, il semplice scienziato, il cupo, insondabile, imperscrutabile stalker. Tre personalità opposte messe di fronte, tutti contro tutti. Pian piano tutto verrà fuori, una matriosca di rivelazioni, rivelazioni personali, sul mondo, sulla loro situazione, sul terrore del voler sapere a tutti i costi. Quando tutto sarà finito poi, niente sarà più come prima. Insomma non siamo di fronte ad un film semplice da vedere: la pellicola (presentata al Festival di Cannes nel 1980) dura quasi tre ore, imbottite di lentissime carrellate, dettate da un gusto per l'immagine che si può definire di stampo poetico, che va oltre la storia che il film racconta. E quindi è difficile valutare un film come Stalker. Siamo in presenza di un film che è manifesto della concezione filosofica e religiosa del regista, dove i limiti umani vengono indagati a partire dai propri desideri più nascosti e più intimi. Il viaggio è un viaggio interiore e solo i veri puri possono comprendere il dono della Zona. La metafora si fa film e il contenuto lo travalica, Stalker è troppo un film che vuole dire e perde in parte la sua essenza cinematografica. Trakovskij ci porta in questo viaggio ma non gli interessa il viaggio è troppo impegnato sui dialoghi, sulle sensazioni e alla fine si disinteressa della storia che racconta. E' una scelta perfettamente voluta ma che trasforma la pellicola in un trattato filosofico e qualsiasi interesse cinematografico viene sacrificato sull'altare del contenuto. In Solaris (simile ma diverso, però solo per la concezione più fantascientifica) era presente la forza del cinema, Stalker invece è un film asciutto, minimale, concentrato sui suoi dialoghi e costruito su una lentezza che definire estenuante è un eufemismo. Il film avrebbe potuto concedere qualcosa di più al racconto cinematografico senza far perdere di incisività alla metafora e al messaggio filosofico, rendendo tutto più interessante e coinvolgente. Anche perché il film riesce a trasmettere anche una certa tensione, e questo è un dato notevole considerando che non si tratta di un horror e quindi non ci si aspetta certo di vedere la testa di qualcuno tranciata improvvisamente di netto. Eppure i tempi troppo dilatati, il significato che si riflette prepotentemente nella (bellissima) fotografia ma che non sorregge l'intera vicenda in quanto essenzialmente sprovvista di una benché minima trama, impediscono al film di decollare verso l'empireo dell'arte più bella. Un film che non mi ha convinto, quindi. Non basta girare un film dall'acuto significato esistenziale, con la classe del regista di talento, perché lo "spettacolo" funzioni. Tuttavia, un film da vedere, da riflettere, e seppur lo reputi lungi dal potersi annoverare fra i capolavori (almeno tra i miei), non gli si può negare il valore (e probabilmente i nobili intenti).

Solaris (1972)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 25/11/2019 Qui
Tema e genere: Film psico-fantascientifico tratto dal romanzo di Stanislaw Lem e messo su pellicola dal grande regista russo Andrej Tarkovskji.
Trama: Nella stazione spaziale in orbita intorno a Solaris, pianeta misterioso, accadono strani incidenti. Un celebre psicologo giunto in perlustrazione scopre che Solaris materializza tutte le immagini sepolte nella memoria degli astronauti. Individuato il "male", lo psicologo si trova a sua volta invischiato dall'entità aliena tanto da ritrovarsi (nella fantasia o nella realtà?) accanto alla moglie morta da anni, nella loro verdissima isba immersa nella campagna russa.
Recensione: Quella che, al momento dell'uscita, venne denominata come "La risposta della cinematografia sovietica a 2001: Odissea nello spazio", non mi ha del tutto convinto. Allora la principale destinazione delle critiche negative fu la sconsiderata opera di taglio e cucito imposta dalla distribuzione italiana, ma, a mio avviso, anche la versione integrale (di 2 ore e 40 minuti circa) è ben lontana dall'evocare le atmosfere ipnotiche e lisergiche del mitico film di Stanley Kubrick (mentre sul doppiaggio una parola, osceno, le parti non tradotte rendevan tutta un'altra atmosfera). Non che Andrej Tarkovskji non sappia il fatto suo in materia cinematografica e nemmeno che in questo Solaris non se ne veda l'impronta, eppure trovo che il risultato sia meno suggestivo ed avvolgente di quanto avrebbe dovuto o potuto essere. Il soggetto, fanta-coscientifico, della materializzazione dei pensieri (che siano ricordi piacevoli o paure) dell'uomo, è di una certa efficacia (tanto che in seguito verrà più volte ripreso e riproposto) e nelle mani del cineasta bielorusso si carica ulteriormente di pathos, fornendo l'occasione per riflettere sull'uomo e la sua condizione di solitudine e fragilità. Condizione dalla quale esso cerca di fuggire attraverso l'innaturale compagnia di riproduzioni, repliche, idealizzazioni materializzate, di figure che animarono il suo passato ed alle quali esso si appoggia per non fronteggiare la dura realtà del presente. Non solo: se l'uomo, reale, cosciente, fatto di atomi, si arrende alla debolezza e si rifugia tra le braccia di un ricordo animato, quest'ultimo, teoricamente immateriale, composto da soli neutrini, che nella realtà terrestre non avrebbe ragion d'essere, su Solaris prende coscienza di sé e della situazione, si arma di coraggio e consapevolezza e si sacrifica per il bene del suo involontario creatore, debole e spaventato. Insomma: un film dai contenuti social-filosofici assai pretenziosi e dalla forma virtuosa sia in termini di sceneggiatura, lentissima e faticosa, che di fotografia, pesante ed opprimente nei suoi colori desaturati, che di inquadrature, lunghe e fisse su particolari non preponderanti (immancabili i particolari su scrosci, o rivoli, o pozze d'acqua e gli scorci di vegetazione selvaggia). Le scenografie ovviamente futuriste, dalle geometrie abbastanza rigide, con una netta prevalenza di rosso, bianco e marrone, che, a turno, si contendono il dominio cromatico della scena, effettivamente richiamano parecchio gli ambienti dell'astronave Kubrickiana e fanno un certo effetto. Non male la prova degli attori, praticamente sconosciuti, che riescono a mantenere un livello di trasporto ed emozione tale da risultare credibili. Peccato per la scarsa fruibilità di un'opera (presentata al 25º Festival di Cannes dove vinse il Grand Prix Speciale della Giuria) che richiede un certo sacrificio, forse non ripagato a dovere. Anche se poi, alla fine, pesante, pesante come un mattone, ma affascinante e realizzato alla grande. Tanto che per chi riesce a digerirlo può essere un capolavoro. Non per me, ma in fondo è solo la mia opinione. Comunque, beh è da vedere, almeno una volta.

Brazil (1985)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 25/11/2019 Qui
Tema e genere: Film di fantascienza di stampo tragicomico ambientato in un mondo distopico, in cui la burocrazia ha preso il sopravvento in ogni attività dell'uomo e, combinata al cinismo spietato dei potenti, uccide chi tenta di ribellarsi e i pochi che ancora riescono a sognare.
Trama: Sam Lawry è addetto agli sterminati archivi di una megalopoli, capitale di un non identificato Paese, in cui la fanno da padrone il Potere e la Burocrazia. Nulla sfugge al sistema computerizzato del Dipartimento Informazioni. Nella città da qualche tempo hanno preso ad agire gruppi di terroristi, che seminano il terrore pur di smuovere qualcosa. Sam, dal canto suo, oppone al grigiore della routine la sua possibilità di evadere nel sogno. Un giorno, però...
Recensione: In un terrificante stato dominato dalla burocrazia l'uccisione di uno scarafaggio fa involontariamente premere a un responsabile un tasto sbagliato e una persona innocente finirà ingiustamente arrestata e uccisa. Finirà a occuparsi del caso uno stralunato funzionario alla disperata ricerca della donna dei suoi sogni e in fuga dall'invadente madre. Una gran bella pellicola che definirei tragicomica. Intanto troviamo la critica ad un potere sempre più burocratico e quindi di conseguenza bieco e senza scrupoli o sentimenti. Tutto è rigidamente controllato e burocratizzato. Il regista "americano" Terry Gilliam si ispira quindi liberamente al "1984" di George Orwell, ma ambienta il film in un imprecisato luogo temporale del futuro, scegliendo una scenografia retro-futurista piena di rimandi alle icone del fascismo e curata in ogni dettaglio estetico e simbolico grazie ad un indiscusso talento immaginifico (si pensi al cappello a forma di scarpa della madre di Sam, quest'ultimo interpretato straordinariamente dal Don Chisciotte ultimo Jonathan Pryce, o alle grottesche e inquietanti maschere da bambino dei torturatori). Brazil è indubbiamente un film fuori dal comune: un trattato di filosofia-politica dall'estetica barocca, una favola nera e visionaria che commuove, disturba e fa riflettere, rivelandosi come un coacervo di sogni, incubi e possibili realtà. Un inno alla libertà e alla fantasia, alla vita mite del povero Sam Lawry (straordinario anti-eroe: timoroso burocrate modello, ingenuo e miope, vittima del sistema ma ancora in grado di sognare e, pertanto, pronto ad abbracciare la giusta causa della resistenza a un potere tirannico) e al suo desiderio d'amore e di fuga, ma anche un grido disperato che nasce dalla paura di non poter più modificare ciò che non può essere tollerato. Brazil è spiazzante e folgorante (il terribile terrorista a cui lo stato sta dando la caccia è nient'altro se non un sovversivo elettricista che ripara le cose senza far parte della società addetta), disilluso e, al tempo stesso e nonostante il suo essere attuale e il suo ineluttabile pessimismo, pieno di speranza: perché quest'ultima, citazione di Vaclav Havel, "non è la convinzione che le cose andranno bene, ma la convinzione che quel che stiamo facendo ha un senso, indipendentemente dal risultato". Camei per Ian HolmBob Hoskins e Robert De Niro, in un personaggio diabolicamente sovversivo e istrionicamente baffuto, nonché per l'ex Monty Python Michael Palin, qui in un ruolo inquietante e desolante. Il suo ex collega Terry Gilliam, alla regia, firma e alla terza opera dietro la macchina da presa, firma così il suo miglior film, probabilmente il suo capolavoro, dando vita ad un racconto che non ha smesso di essere presente. Un racconto tragicomicamente delizioso, che anche grazie ad un tragicomico motivetto ti prende e non ti lascia più. Già, "Braaaasil parrappapaparaa" avete presente la musichetta carnascialesca che (specialmente nella versione medley con Brigitte de Bardò Bardò) ha allietato tanti dei vostri gaudenti trenini? Si? Bene, allora canticchiatela spensieratamente per l'ultima volta, perché dopo la visione di questo film assumerà un gusto un po' amaro e si velerà della lieve malinconia che talora avvolge il ridestarsi dei sognatori.

Il mondo dei robot (1973)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 25/11/2019 Qui
Tema e genere: Film di fantascienza precursore del tema della macchina che si ribella all'uomo.
Trama: Siamo a Delos, luogo di vacanze per i terrestri di un non lontano futuro. Diviso per epoche storiche e popolato di robot debitamente rivestiti, permette ai turisti di "vivere" avventure di ogni genere senza pericoli. Ma a Peter e John qualcosa va storto: i robot iniziano a ribellarsi e il tuffo nel vecchio West si trasforma in un incubo tragico, al quale sembra impossibile trovare una via d'uscita.
Recensione: Scritto e diretto da Michael Crichton nel 1973, Westworld (il film) è decisamente più ingenuo e bonaccione, se visto oggi, paragonato a Westworld (la serie, qui la recensione della seconda stagione). Ma gli elementi che caratterizzano quest'ultima sono tutti già presenti, anche se un po' all'acqua di rose, perché per esempio non viene per niente approfondita la causa dei guasti alle macchine. Infatti, in questo visionario fanta-western apocalittico ambientato interamente in un parco divertimenti del futuro, una super-Disneyland del 2000 popolata da robot e divisa in tre universi tematici (l'antica Roma, il Medioevo e il Far West), in cui turisti danarosi trascorrono suggestive vacanze, il monito dell'autore sulla paura per il progresso scientifico si manifesta violentemente quando tutti i robot del parco sfuggono (senza sapere perché) al controllo dei tecnici della centrale operativa iniziando ad attaccare gli esseri umani: la suspense e la tensione latenti sin dall'inizio esplodono in tutta la loro drammaticità trascinando vorticosamente il film fino al convulso (forse troppo convulso) finale. Spettacolare e sicuramente coinvolgente, Il mondo dei robot soffre, però, l'eccessiva convenzionalità drammaturgica di una messinscena senza dubbio efficace ma priva di impennate e virtuosismi, se si escludono i trucchi e le magie degli effetti speciali (è, tra l'altro, il primo film ad utilizzare immagini digitalizzate al computer) e le performance dell'ottimo cast, tra cui si segnalano, oltre a Yul Brynner (perfetto Pistolero, e non per caso), che tratteggia con ipnotiche e meccaniche movenze (tanto meccaniche come lui essere lo "zio" di Terminator) un personaggio inquietante e suggestivo, le prove di James Brolin (probabilmente il vero "padre" di Christian Bale), Richard BenjaminDick Van Patten e Steve Franken. Manca anche un po' di ritmo, e soprattutto, come detto, mancano certi sviluppi filosofici ed esistenziali che hanno fatto poi la fortuna della serie. Tuttavia non si può non dare i giusti meriti, si ricordi che siamo agli inizi degli anni '70, e ringraziare Il mondo dei robot per esserci stato. Perché senza, molto probabilmente, non avremmo avuto, dopo, nei decenni successivi ed anche adesso, la fortuna di vedere certe iconiche pellicole di fantascienza. Enorme infatti è stata la sua influenza, non è un caso che molti sono gli elementi all'interno del film divenuti successivamente dei veri e propri stereotipi del genere. Ed è così che questo film, da molti considerato (e giustamente) un cult, si faccia ben volere nonostante tutto, nonostante nel complesso sia in verità un film non proprio eccezionale, anzi.

Fantascienza Vintage

Post pubblicato su Pietro Saba World il 25/11/2019 Qui - Ci sono film che si è visti ma che poi abbiamo dimenticato (non è questo il caso), e poi ci sono film che si conoscono anche senza averli visti. Con le dovute precauzioni (e di ciò dirò dopo) è questo il caso. Sì perché alcuni sono così famosi che basta nominarli per riconoscere immediatamente di cosa e di chi si sta parlando. Lo sanno bene chi di cinematografia conosce abbastanza, chi come me, da appassionato, è in grado di capirne la portata, in grado di coglierne l'essenza e di conoscerne la nomea. E infatti, questi quattro film di fantascienza scelti per esplicare (e concludere, è l'ultima della lista) la mia promessa cinematografica, sono quattro famosi film di fantascienza, quelli forse tra i più importanti del panorama di genere. Ma andiamo con ordine. Ho scelto di vedere Il mondo dei robot perché dopo aver visto Westworld la serie, mi sono accorto di non avere visto l'originale, in tal senso è giusto fare un riscontro tra i due prodotti, e così ho deciso di recuperarlo. Ho scelto di vedere Brazil, perché pur apprezzando Terry Gilliam, anche se i suoi ultimi lavori mi hanno lasciato un po' perplesso, non avevo ancora visto (pur conoscendone bene l'estetica e la sua natura) il suo film più celebrato, e così non ho perso questa occasione. Avevo già scelto a tempo debito di vedere Stalker di Andrej Tarkovskij, giacché ne avevo sempre sentito parlare, sapevo della sua esistenza (addirittura ne ho sempre colto gli omaggi o le citazioni), però non avevo approfondito, ma era giusto anche recuperare un altro famoso film di fantascienza del celebrato regista russo, un film che, reclamizzato come "La risposta della cinematografia sovietica a 2001: Odissea nello spazio" non avevo ancora visto. E il film è ovviamente Solaris, di cui credo di aver visto però il remake con George Clooney, quindi qualcosa già sapevo, tuttavia sempre ben altra cosa è vedere il materiale originale, e così anche questo film è entrato nel quartetto, nel quartetto di film sempre conosciuti ma mai visti (almeno non interamente) da me.

sabato 23 novembre 2019

Your Name. (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 22/11/2019 Qui
Tema e genere: Pensate che la vostra vita sia troppo monotona e vorreste trovarvi al posto di qualcun altro che pensate si trovi in una situazione migliore della vostra? Un modo esiste ed è Your Name., film d'animazione giapponese del 2016 scritto e diretto da Makoto Shinkai, tratto dal medesimo romanzo scritto dallo stesso regista del film.
Trama: Taki, liceale di Tokyo, e Mitsuha, la figlia di un sindaco di un paesino di montagna, un giorno scoprono che nel sonno sono finiti misteriosamente e miracolosamente l'uno nel corpo dell'altra e iniziano a comunicare tramite dei promemoria. Mentre goffamente superano le sfide che derivano da questa nuova e inedita situazione, tra i due nasce un legame d'amicizia che ben presto si trasforma in qualcosa di più romantico.
Recensione: Ecco un altro film di un regista giapponese ancora personalmente sconosciuto, come successo con The Boy and the Beast, e come in quel caso (di cui alla regia c'era Mamoru Hosoda) è sicuro che prossimamente recuperi i suoi precedenti lungometraggi d'animazione, ovvero 5 cm al secondo, Il giardino delle parole (quest'ultimo già in lista) e Viaggio verso Agartha (anche se su questo ho un dubbio se l'ho visto o meno), diretti tutti da Makoto Shinkai, ultimamente già nuovamente al cinema con Weathering with You (che ovviamente non mi perderò). E come in quell'occasione mi sono ritrovato a vedere un bel film d'animazione, anzi, di più, perché è una meraviglia per gli occhi e per il cuore l'opera di Shinkai. Un viaggio bellissimo, una ricerca continua dell'altro e contemporaneamente di sé, illuminata da immagini e disegni stupendi, scenografie mozzafiato degne dei migliori direttori della fotografia dei film su pellicola. E dire che, volendo essere gentili, il punto di partenza di Your Name. è quanto di più banale si possa trovare rovistando negli archetipi di anime e manga: il filo rosso del destino e lo scambio di corpi sono temi usati e abusati, per quanto questo film sia la dimostrazione che non ci stanchiamo mai delle vecchie storie, soprattutto se raccontate con garbo ed emozione. Ed è così anche qui, qui dove c'è più della storia d'amore tra adolescenti, c'è la ricerca della consapevolezza di sé stessi specchiandosi negli occhi e nella vita dell'altro e la rappresentazione di una forza unica che trascende ogni difficoltà e ogni dimensione spazio-temporale. L'aggiunta di una vena fantascientifica dona al film un'ulteriore dose di magia ma, e questo è l'unico difetto, lo rende a volte difficile da seguire e un po' troppo ingarbugliato. In ogni caso la scena finale è memorabile ed iconica e potrebbe rimanere impressa in mente per un bel po' di tempo (anche se una simile è rimasta già impressa da tempo, il primo emozionante incontro tra Johnny e Sabrina, se non sapete chi sono, vi tolgo il saluto). Ma andiamo con ordine.

giovedì 21 novembre 2019

Valhalla Rising - Regno di sangue (2009)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 20/11/2019 Qui
Tema e genere: All'epoca settimo film (terzo in lingua inglese) di Nicolas Winding Refn, Valhalla Rising è la sanguinosa allegoria di un dio, un viaggio epico drammatico metafisico.
Trama: Anno 1000 d.C. - Dopo essersi liberato dalla prigionia cui un gruppo di pagani lo costringeva, Oneye (Mads Mikkelsen), un guerriero muto e dalla forza strabiliante, accompagnato da un giovane ragazzo che parla al posto suo, si imbatte in un gruppo di cristiani. Li seguirà verso la "Terra Santa", percorrendo il suo tragitto verso il destino, verso dissidi interni che ci saranno e pericoli esterni che arriveranno.
Recensione: Non mi aspettavo un film d'azione, avendo visto altri film del regista svedese sapevo di potermi trovare di fronte qualunque cosa (anche se la trama può indurre in errore). Ma mai mi sarei aspettato di ritrovarmi (dopo precedenti non propriamente convincenti, suoi, non lo era forse anche il deludente The Neon Demon?, e soprattutto di altri) nuovamente di fronte ad un film criptico, di fronte ad un film difficile da valutare, perché appunto particolare, con un finale decisamente ermetico e difficile da comprendere totalmente. Sì perché con Valhalla Rising siamo dalle parti del criptico, del poco comprensibile, del difficile. Ci si ritrova (e non scherzo) a grattarsi la testa per capire dove il regista vuole andare a parare. Valhalla Rising è infatti quel tipo di film in cui per quasi tutta la durata non si parla, quello che si dice è poco interessante o quanto meno interpretabile (diviso in sei atti, i dialoghi sono quasi del tutto assenti e la narrazione è affidata tutta all'espressività degli attori), e in cui la maggior parte delle scene d'azione risultano più che altro volte a ridestare l'attenzione del pubblico. Incredibile, non è vero? E' pensare che poi il film realmente narra ciò di cui sopra (intendo la trama). Il regista danese Nicolas Winding Refn trova grande ispirazione nelle atmosfere e nelle ambientazioni nordiche. Gioca con la fotografia (davvero ben realizzata), suggerisce visioni di tipo biblico. Si fa violento, inoltre, attraverso la musica e il sangue (che scorre a fiumi), ma lascia al pubblico l'ultima parola. Difficile capire cosa vorrebbe dire di preciso il regista, e comunque difficile spiegarlo a parole. E forse, per renderlo al meglio si potrebbe suggerire (a chi abbia voglia di vederlo, anche se in questo caso il target è innegabilmente ristretto) di leggere direttamente la Bibbia o le leggende nordiche a cui tutto il film si ispira. Tutto il resto è una specie di delirio visivo dannatamente cupo, criptico in modo testardo e oltretutto lentissimo. Un film che forse bisognerebbe vedere due volte, per capirci realmente qualcosa.

martedì 19 novembre 2019

Se la strada potesse parlare (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 18/11/2019 Qui
Tema e genere: Adattamento cinematografico del romanzo del 1974 Se la strada potesse parlare, scritto da James Baldwin.
Trama: Tish e Fonny si amano, lei rimane incinta e lui viene arrestato per un reato che non ha commesso.
Recensione: Se solo potessero parlare, se potessero vedere tutto quel che accade, cosa potrebbero raccontare le strade di Harlem? Forse che finché esisterà un'ingiustizia cieca, un'ignobile intolleranza e un meschino ingranaggio che crea vittime innocenti, la bellezza non basterà a salvare il mondo. Se la strada potesse parlare è uno di quei film che, in sospeso in un dramma familiare, pennellano ed accarezzano la visione con una storia d'amore semplice, tanto essenziale quanto il contesto in cui prende vita. Tra fotografie storiche alla Spike Lee (a tal proposito analogamente al suo ultimo lavoro, BlacKkKlansman, con cui condivide la forma intessuta di immagini di repertorio, è anche un film di denuncia sociale che si propone di sensibilizzare il pubblico sul tema della discriminazione razziale in USA, facendo in modo che si immedesimi nel dramma quotidiano dei suoi protagonisti: una coppia che vede spezzati i suoi progetti di vita matrimoniale a causa dei pregiudizi culturali), estremizzazioni cristiane ed una clandestinità a cielo aperto, Barry Jenkins (artefice del più che discreto Moonlight pochi anni fa), ci descrive una rarefatta Harlem, dove la rivendicazione sociale, ancorché politica, è tanto presente da contagiare una giovane coppia, il cui unico errore fatale è stato difendersi da un assalto mentre compravano delle sigarette (forse troppo rarefatta e un po' troppo melodrammatica, seppur l'ambientazione gli anni settanta delle tensioni a seguito dell'abolizione delle leggi razziali e della pena di morte ancora ampiamente diffusa, è fondamentale ai fini del dramma). L'intera vicenda si articola intorno al giovane ventiduenne "Fonny", a cui da la vita Stephan James, e ad una aggraziata quanto resiliente "Tish", interpretata da KiKi Layne. Una storia di coppia il cui arco trova origine nell'ingenuità dell'infanzia che, poco a poco, subisce un'evoluzione dettata dal destino, nella semplice affermazione di un sentimento che è sempre stato lì in attesa, e che dovrà aspettare aldilà di un vetro per parecchio tempo ancora.

sabato 16 novembre 2019

The Disaster Artist (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 15/11/2019 Qui
Tema e genere: Tratto dall'omonimo romanzo di Tom Bissell e Greg Sestero, questo film biografico/drammatico (candidato agli Oscar per la migliore sceneggiatura non originale e diretto ed interpretato da James Franco) racconta la storia vera, e tragicomica, della creazione di The Room, una delle pellicole più derise della storia del cinema, un capolavoro trash che ebbe un pesante insuccesso in sala ma che, negli anni, è diventato uno (s)cult imperdibile.
Trama: La strana ma vera storia dell'amicizia tra gli attori Greg Sestero e Tommy Wiseau, che insieme realizzarono The Room, film all'unanimità considerato come il peggiore della storia del cinema.
Recensione: Qual è il film più brutto della storia del cinema? Guardando all'Italia c'è parecchia scelta, uno potrebbe essere per esempio un certo film interpretato da Alberto Tomba, quelli che se ne intendono dicono invece che sia stato The Room (che non ho visto e in verità non so se mai vorrei vederlo, è troppo anche per me che seguo il cinema trash), il film che Tommy Wiseau realizzò agli inizi degli anni 2000, vicenda rocambolesca ricostruita in The Disaster Artist. Un film decisamente strano ma stupefacente, un film in cui c'è James Franco, c'è Seth Rogen, c'è comicità, elementi incredibili al limite dell'assurdo, tuttavia dannatamente veri. Si perché The Disaster Artist, basato appunto sull'omonimo libro di Greg Sestero, si ispira alla vera storia della lavorazione del film The Room, un film talmente brutto da essere entrato nel mito. E così sulla falsariga di altri titoli simili quali Ed Wood e Bowfinger, il film di Franco ci racconta un personaggio eccentrico (un genio visionario o un semplice folle sfigato? a questa domanda non viene data risposta, ma è facile propendere per la seconda ipotesi) e la sua idea di realizzare un film nonostante la totale incompetenza. The Disaster Artist è, quindi, un film nel film, ma è anche la storia d'amicizia tra due uomini, il giovane e sprovveduto attore Greg Sestero (interpretato benissimo dal fratello del regista, il comunque già navigato Dave Franco) e il misterioso e strambo Tommy Wiseau (di lui ancora oggi non si conoscono luogo di nascita, età e provenienza del suo inestimabile patrimonio). Di sicuro però non è un film che vuole fare il verso a quel "stravagante" film, anzi, The Disaster Artist è il mezzo con cui James Franco elude la bruttezza di quel film per indagare sulla sua realizzazione, su come un iniziale entusiasmo produttivo si sia trasformato in un disastro senza pari e, ancor di più, su cosa può essere passato per la testa a Tommy Wiseau (qui interpretato splendidamente dallo stesso Franco) durante tutti quei giorni.

giovedì 14 novembre 2019

The Nun - La vocazione del male (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 14/11/2019 Qui
Tema e genere: Spin-off di The Conjuring - Il caso Enfield, ed è incentrato sul demone con sembianze di suora Valak, antagonista del film citato.
Trama: Una giovane suora di clausura si toglie la vita in un'abbazia della Romania. Dal Vaticano per far luce sull'evento vengono mandati un prete con un burrascoso passato alle spalle e una giovane novizia sulla soglia dei voti. Insieme sveleranno il profano segreto dell'ordine, mettendo a repentaglio non solo le loro vite ma anche la loro fede e le loro anime.
RecensioneThe Nun, di fatto il terzo spin-off della celebre saga horror di The Conjuring, doveva rispondere con chiarezza sulle origini di Valak, la nefasta e tenebrosa suora spesso indagata dai coniugi Warren e protagonista di The Conjuring - Il Caso Enfield (la storia si svolge circa vent'anni prima e narra dunque le origini della diabolica creatura, per poi ricongiungersi solo nel finale alla pellicola di riferimento, della quale riprende dinamiche e atmosfere sovrannaturali). L'ha fatto, anche se rimangono ancora nel dubbio molte cose, peccato che poi l'abbia fatto anche in modo alquanto deludente. Anzi, di più, se dopo la seconda costola dedicata alla bambola demoniaca Annabelle avevo sperato che la saga continuasse sulla buona strada, purtroppo qui non accade, giacché The Nun rimane forse troppo anonimo e standardizzato rispetto ai capitoli colleghi. E' infatti un passo indietro per l'intero franchise e un'occasione mancata per il grande potenziale a disposizione del regista. Il prequel diretto da Corin Hardy tende difatti troppo a slegarsi, a farci perdere il filo del discorso, infognandosi in scene di poco senso che si preoccupano più di trascinare vagonate di cliché che di trovare quel pizzico di originalità tanto anelata. Che poi non è tanto la trama abbastanza scontata e prevedibile o i cliché (che comunque non possono mancare) a non convincere, quanto il fatto che più che di un film horror lo si può considerare un gotico racconto del terrore dai toni quasi fantastici, che cercando ingenuamente di trarre giovamento nell'accostamento con Dracula di Bram Stoker sbaglia (soprattutto introducendo inizialmente una certa inutile ironia). Malgrado le suggestive ambientazioni, ricreate da una curata scenografia, e qualche buona idea visiva offerta da regia ed effetti speciali, mancano infatti i momenti di vero spavento e anche la tensione non riesce mai a raggiungere livelli particolarmente elevati. Neanche le prove attoriali del cast sono particolarmente ispirate, né Demián Bichir, né Taissa Farmiga (sorella della Vera e nota soprattutto per i suoi ruoli nella serie televisiva antologica AHS), né gli altri (da Charlotte Hope a Jonas Bloquet) offrono più del dovuto. Tuttavia a risollevare parzialmente le sorti di un film che difficilmente resterà nei cuori degli amanti del genere horror e della saga di The Conjuring in particolare, ecco una colonna sonora, dal sapore medievale ed epico, davvero interessante, e una presenza, quella della suora indemoniata, discretamente impattante. Nel complesso però l'impressione finale è che questo film sia stato una forzatura, fatto in fretta e furia per accontentare un desiderio della fan base che però, ne sono convinto, avrebbe aspettato volentieri ancora del tempo pur di vedere un film degno del franchise a cui appartiene. Di meglio ci si aspetta dai prossimi.

Annabelle 2: Creation (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 14/11/2019 Qui
Tema e genere: Prequel del film del 2014 Annabelle, e narra della creazione e delle origini della malefica e temuta bambola posseduta Annabelle, una dei protagonisti di numerose vicende paranormali studiate dalla coppia di demonologi Ed e Lorraine Warren.
Trama: Diversi anni dopo la tragica morte della loro piccola figlia, un creatore di bambole e sua moglie accolgono in casa una suora e diverse ragazze di un orfanotrofio. Queste diventeranno presto l'obiettivo di Annabelle, la diabolica bambola creata dall'uomo.
Recensione: Seguito cronologico di Annabelle ma in sostanza (come detto) è un prequel (oltreché ulteriore spin-off di L'evocazione), il film ha come protagonista, la malefica bambola, già vista nel primo film della serie. Solitamente i prequel nascono penalizzati dal fatto di raccontare avvenimenti che in qualche modo sono già conosciuti o possono essere intuiti, non nella fattispecie. La storia, pur essendo piuttosto semplice, è innegabilmente coinvolgente e suggestivamente carica di tensione, riportando con sagacia narrativa gli accadimenti, sino a un rapido ed efficace "trait d'union" con il film precedente. Il regista David F. Sandberg conosce bene il genere horror (è lui ad aver ideato il corto poi diventato lungometraggio, lo spaventoso Lights Out: Terrore nel buio) e il sottogenere di cui fa parte il film, quello delle "bambole possedute e assassine" che è stato ampiamente sfruttato, cinematograficamente parlando, tuttavia manipolando abilmente il materiale a disposizione, utilizzando la sua maestria e nei limiti imposti dal contenuto target commerciale, riesce comunque a  realizzare un  prodotto assolutamente efficace e riuscito, che riesce spesso a far accapponare la pelle. Il film, anche se privo di elementi nuovi e infarcito dei canonici cliché e di  un uso smodato, dei più tipici e adoperati espedienti per suscitare paura, è perfettamente funzionale allo scopo. Il regista maneggia con destrezza le tecniche atte a  produrre spavento, riuscendo a trarre la massima resa dalla storia. L'ambientazione conferisce un giusto tocco "vintage" al contesto malinconico e inquietante, nel quale la trama si sviluppa, avvolta in atmosfere sinistre. E così Annabelle 2, pur costituendo nel complesso un film perfettibile e di per sé dimenticabile, si colloca su un buon livello nel panorama del genere, come d'altronde lo sono state finora tutte le pellicole generate da The Conjuring: un risultato per nulla scontato che fa ben sperare anche per gli altri prequel, sequel o spin-off che verranno, se saranno realizzati dalla stessa squadra.

The Conjuring - Il caso Enfield (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 14/11/2019 Qui
Tema e genere: Sequel del film horror soprannaturale del 2013 The Conjuring - L'evocazione.
Trama: I coniugi Warren vengono chiamati dalla Chiesa in Inghilterra per far luce su uno strano caso di possessione.
Recensione: Gran bell'horror, sequel forse migliore del già buon primo episodio (qui). Credo infatti che Il caso Enfield (che ha l'innegabile merito di andare a parare su atmosfere completamente diverse rispetto alla versione del 2013, visto anche il cambio di location e di paese) rientri appieno nella ristretta cerchia di film all'altezza, se non di un pelo superiori ai predecessori, infatti se il primo risulta superiore a questo per la storia di base più horror, questo risulta sicuramente superiore per il delineamento e la cura dei personaggi basandosi su un cast di ancor più alto livello. Altro punto a favore è senz'altro la scelta di puntare il più possibile sul "realismo" piuttosto che sul sovrannaturale ed ho apprezzato moltissimo l'introduzione del personaggio della scettica a fare da contraltare ai coniugi Warren (la cui alchimia è decisamente cresciuta dal primo capitolo). James Wan (che torna a dirigere un episodio della saga da lui creata) riesce persino ad introdurre sequenze di notevole tenerezza qua e là e soprattutto riesce a tener vivo fin quasi alla fine il pur minimo dubbio che tutto quello si è visto e detto altro non è che realmente una invenzione della madre disperata e questo solo grazie al regista (che imbastisce un racconto di grande tensione dove c'è spazio per la paura ma dove il male, per quanto spropositato, non ha mai l'ultima parola). Altra ottima scelta inoltre, almeno per me, quella di ridurre al minimo possibile la CGI per lasciare il posto fin dove possibile al trucco ed ai costumi (e quindi di aumentare ulteriormente la dose di "realismo"). A tal proposito qui la confezione è di livello, come il cast che, come nel primo episodio, vede protagonista l'efficace coppia formata da Patrick Wilson e Vera Farmiga. Non dimentichiamoci però di quelli che dovrebbero essere i veri protagonisti: gli spaventi. E qui ve ne sono a bizzeffe e quasi mai telefonati (la scena dell'uomo torto è senz'altro efficace). Persino la sceneggiatura è abbastanza solida, con un buon colpo di scena verso la fine ben giocato. Ovviamente non mancano i punti dolenti, specialmente sul finale, dove ci sono alcune sequenze e trovate un po' forzate o comunque troppo sbrigative (specialmente la cacciata del demone che avviene troppo velocemente, un po' di tempo in più, visto la durata della pellicola, non credo avrebbe guastato), ma nel complesso un più che discreto horror e un buon film. Qualcuno avrà forse storto la bocca davanti alla banalità e alla ripetitività dello svolgimento (famiglia, casa infestata, esorcizzazione del demone, finale) però The Conjuring - Il caso Enfield ha una sua coerenza ben definita: all'interno di una serializzazione di film, cerca di dare in pasto allo spettatore una formula ben nota, cambiandone le modalità, ma rimanendo fedele alle meccaniche, e riesce a regalare cose buone (anzi, indemoniate).

Annabelle (2014)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 14/11/2019 Qui
Tema e genere: Horror soprannaturale spin-off di The Conjuring - L'evocazione, anch'esso basato su fatti che la coppia di demonologi Ed e Lorraine Warren sostiene essere realmente accaduti.
Trama: John Form regala alla moglie incinta Mia una rara bambola d'epoca, vestita con un abito da sposa. Durante una terribile notte, però, la coppia vede la propria abitazione attaccata violentemente dai membri di una setta satanica. Sangue e terrore non sono la sola cosa che l'assalto lascia loro. Gli adepti hanno infatti evocato un'entità diabolica che niente sembra poter scalfire: Annabelle.
Recensione: Un horror non proprio da buttare è Annabelle, prequel (pur possedendo una trama indipendente) del bel L'evocazione - The Conjuring di James Wan che qui produce affidando la regia al suo fido direttore della fotografia, John R. Leonetti. Il film, nello stile e nella narrazione segue da vicino le cose migliori di The Conjuring, ovvero una confezione impeccabile e insolita per un horror, che nella maggioranza dei casi, mostra una forma impresentabile, sciatta e approssimativa. Qui invece si avverte una grande attenzione alla messinscena, assai curata e verosimile nell'ambientazione vintage anni '70, un uso della luce e degli spazi suggestivo con una sequenza almeno, quella in soffitta, di grande effetto e ampio spazio lasciato agli artifici classici del genere. Una colonna sonora efficace, una gestione della suspense che in un paio di sequenze (i vari oggetti stregati della casa e l'entrata in scena del prete) centra l'obiettivo. Leonetti non ha il talento di Wan, è più che altro un buon impaginatore e la sua storia (l'ennesima variazione della casa infestata) è poco originale (a parte qualche piccola interessante diversità) ma ci mette molto mestiere e non si rifugia nelle facili scorciatoie, fatta eccezione per una risoluzione della vicenda un po' grossolana (però non troppo banale). Come già nel film precedente, si crea inquietudine e tensione senza grossi effetti ma spesso utilizzando con intelligenza la macchina da presa (i brevi ma numerosi piani sequenza), facendo parlare, per così dire, oggetti inanimati e spesso immobili, come la bambola protagonista che per la maggior parte del film è una bambola davvero che non si muove né comunica in alcun modo. Insomma, senza la complessità anche tematica e religiosa del film di Wan, Leonetti porta a casa il risultato facendo leva sulle paure più nascoste e oggettivandole nella storia (la setta di Manson che fa capolino diverse volte) e in situazioni di difficoltà e fragilità. Soprattutto, ha il merito di non raccontare baggianate sul male che cerca di scavare nel modo più essenziale e verosimile possibile. Al di là di un finale debole e di qualche manierismo di troppo, un horror sufficientemente riuscito. L'opera completa è infatti (il tempo poi è gestito in maniera ottimale non suscitando mai noia) apprezzabile.

L'evocazione - The Conjuring (2013)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 14/11/2019 Qui
Tema e genere: Horror soprannaturale basato sui fatti riportati dalla coppia di ricercatori del paranormale Ed e Lorraine Warren, le cui esperienze in precedenza avevano già ispirato film come Amityville Horror e The Haunting in Connecticut.
Trama: Una famiglia si trasferisce in una villa di campagna, scatenando l'ira di oscure presenze: due famosi demonologi si occupano del caso.
Recensione: Partiamo dicendo che i canonici ingredienti da film horror sono tutti ben presenti: casa in campagna isolata, famigliola felice che rimane sconvolta dagli eventi, presenze più o meno demoniache, porte che scricchiolano, strane bambole, persone possedute ed esorcismi. Insomma fino a qui nulla di nuovo. Ciò che fa però funzionare il film è la capacità del regista James Wan di evocare (senza inventarsi nulla) la paura con i vecchi strumenti del mestiere: appunto una famiglia, una presenza demoniaca e una casa che da qualsiasi impressione tranne quella di essere un posto sicuro e accomodante, tipico delle abitazioni degli horror anni '70-'80, ma gestendo bene la suspense. A ciò ci si aggiunga in questa pellicola costruita come si deve (la trama inizialmente procede lenta ma senza intoppi, lo sviluppo di tutta la vicenda è buono rendendosi in grado di suscitare interesse e curiosità nello spettatore), una buona attenzione per i dettagli percettivi, visivi o uditivi che siano (discreta la fotografia di John R. Leonetti, che sguazza nelle ombre ma con la capacità di non farci perdere alcun dettaglio né di affaticarci la vista, ed azzeccate le apocalittiche musiche di Joseph Bishara, discreto inoltre il trucco), anche se poi non fa gridare al miracolo (il che è comunque un demerito relativo). E come se non bastassero, si fa subito forza con un'introduzione efficace dei coniugi Warren, il che conferisce una cospicua dose di credibilità, apre con furbizia ulteriori strade (vedi la bambola "Annabelle", che vedrà poi un "suo" film), insomma ogni mossa ha dietro un suo perché, tangibile o meno all'interno del film. E così sfruttando vagonate di archetipi del genere, dai rumori ai dettagli demoniaci, riesce a creare una buona suspense, anche se a dire il vero poi quando deve esplodere definitivamente paventa qualche balbettio in più. In tal senso risulta emblematica la parte finale (altresì un po' ingenua), infatti quando sopraggiunge il più bello poi quest'ultimo non dura a sufficienza (risoluzione non in linea con la durata del film) per ghiacciare il sangue (anche se il messaggio è positivo). Stimolanti invece i titoli di coda, studiati per accrescere ulteriormente la soggezione, d'altronde nel cinema di James Wan la maestria nell'utilizzo del mezzo va di pari passo con un'idea globale che guarda indietro, riprendendo stilemi collaudati, ed ancor di più avanti per aprirsi sempre più strade. Molto apprezzato dal pubblico, probabilmente più scaltro che completamente riuscito, ha evidenti meriti, qualcosa di meno convincente e può contare su un buon cast che va dal feticcio horror dell'autore (Patrick Wilson, già presente in Insidious) a delle vere donne sopra la media come Vera Farmiga (candidata Premio Oscar nel 2010 con "Oltre le nuvole") e Lili Taylor che sanno conferire ai loro personaggi paure e consapevolezza. Era difficile apportare grosse novità su un tema che è stato ritrattato più e più volte, ma c'è da dire che il regista James Wan (colui che nel 2004 ha creato il primo, e forse unico meritevole di una certa attenzione, della saga di Saw) è del tutto in grado di rendere la pellicola molto interessante (giacché sa come muovere la macchina per creare la suspense giusta in sequenze al cardiopalma). Questo a dimostrazione che in un mondo in cui (quello del cinema) le idee scarseggiano, se il film viene girato da un regista che sa il fatto suo, ne uscirà lo stesso un buon prodotto. Un prodotto di discreta fattura, che decisamente sa spaventare, mantenendo una certa credibilità. Un buon film che tiene attaccati alla poltrona e a un film horror non si può chiedere molto altro. Un buon horror, che a tutti gli appassionati del genere non può di certo mancare.

The Conjuring Universe

Post pubblicato su Pietro Saba World il 14/11/2019 Qui - E' stato probabilmente cinque anni fa quando vidi The Conjuring - L'evocazione, quando non faceva parte di qualcosa di più grande venuto dopo, poi non so perché ma non ho più seguito il "filo del discorso", ho rimandato e rimandato, però dopo 5 film, e grazie alla Promessa, ho potuto finalmente riprenderlo (ripartendo dall'inizio). Ed è così che ho visto i primi capitoli di questa particolare ed agghiacciante saga, denominata successivamente come il "The Conjuring Universe", che è forse una delle saghe horror più di successo degli ultimi anni. Da The Nun ai racconti della vita dei coniugi Ed e Lorraine Warren, tutti i film della serie includono sia eventi storici realmente accaduti, che verità e idee completamente inventate. I vari capitoli sono disseminati di sacrilegi, sedute spiritiche e elementi soprannaturali che possono benissimo funzionare come storie indipendenti, ma che in realtà sono tutte meticolosamente intrecciate (anche se la sensazione che qualcosa non torni c'è ugualmente), attraverso le storie di bambole di porcellana, suore e persino uno zootropio di stagno d'epoca. Cominciato nel 2013 con The Conjuring (appunto) di James Wan (che è rimasto come produttore esecutivo di tutti gli episodi successivi), il The Conjuring Universe ha preso il via dal racconto della vita di Ed e Lorraine Warren, una coppia di Monroe, in Connecticut, realmente vissuta e che ha dedicato la sua vita ad investigare sugli eventi soprannaturali. Le loro indagini hanno permesso all'universo cinematografico di espandersi (è tuttora in espansione), introducendo diversi personaggi demoniaci (che pian piano faranno il loro debutto in singolo). Ma i vari episodi della saga non sono mai usciti nelle sale secondo un ordine cronologico preciso. Ed è questo forse l'unico difetto di questa saga, giacché tra spin-off, sequel e prequel ogni tanto ci si perde, proprio perché tutti i capitoli sono uno collegato con un altro o gli altri. In tal senso fa specie che La Llorona - Le lacrime del male (che ovviamente devo ancora vedere, come Annabelle 3, entrambi usciti quest'anno) sia entrato in questo universo cinematografico quasi per caso. Tuttavia alcuni pregi notevoli questa saga ha, soprattutto uno, ed è indubbiamente quello di andare (quasi sempre) oltre la media del genere e dei suoi simili (che si attestano intorno alla mediocrità o giù di lì). Però a tal proposito si spera che non allunghino troppo il discorso, per non depauperare ulteriormente (giacché la base è sempre quella) un mercato già logoro di suo, anche se appunto qui la qualità e quantità è migliore. In ogni caso ecco cosa ne penso io di capitolo in capitolo, visti e recensiti in ordine di uscita.