Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 18/11/2019 Qui
Tema e genere: Adattamento cinematografico del romanzo del 1974 Se la strada potesse parlare, scritto da James Baldwin.
Tema e genere: Adattamento cinematografico del romanzo del 1974 Se la strada potesse parlare, scritto da James Baldwin.
Trama: Tish e Fonny si amano, lei rimane incinta e lui viene arrestato per un reato che non ha commesso.
Recensione: Se solo potessero parlare, se potessero vedere tutto quel che accade, cosa potrebbero raccontare le strade di Harlem? Forse che finché esisterà un'ingiustizia cieca, un'ignobile intolleranza e un meschino ingranaggio che crea vittime innocenti, la bellezza non basterà a salvare il mondo. Se la strada potesse parlare è uno di quei film che, in sospeso in un dramma familiare, pennellano ed accarezzano la visione con una storia d'amore semplice, tanto essenziale quanto il contesto in cui prende vita. Tra fotografie storiche alla Spike Lee (a tal proposito analogamente al suo ultimo lavoro, BlacKkKlansman, con cui condivide la forma intessuta di immagini di repertorio, è anche un film di denuncia sociale che si propone di sensibilizzare il pubblico sul tema della discriminazione razziale in USA, facendo in modo che si immedesimi nel dramma quotidiano dei suoi protagonisti: una coppia che vede spezzati i suoi progetti di vita matrimoniale a causa dei pregiudizi culturali), estremizzazioni cristiane ed una clandestinità a cielo aperto, Barry Jenkins (artefice del più che discreto Moonlight pochi anni fa), ci descrive una rarefatta Harlem, dove la rivendicazione sociale, ancorché politica, è tanto presente da contagiare una giovane coppia, il cui unico errore fatale è stato difendersi da un assalto mentre compravano delle sigarette (forse troppo rarefatta e un po' troppo melodrammatica, seppur l'ambientazione gli anni settanta delle tensioni a seguito dell'abolizione delle leggi razziali e della pena di morte ancora ampiamente diffusa, è fondamentale ai fini del dramma). L'intera vicenda si articola intorno al giovane ventiduenne "Fonny", a cui da la vita Stephan James, e ad una aggraziata quanto resiliente "Tish", interpretata da KiKi Layne. Una storia di coppia il cui arco trova origine nell'ingenuità dell'infanzia che, poco a poco, subisce un'evoluzione dettata dal destino, nella semplice affermazione di un sentimento che è sempre stato lì in attesa, e che dovrà aspettare aldilà di un vetro per parecchio tempo ancora.
L'intero film ci suggerisce due approcci essenziali: uno legato agli accadimenti del presente (forse un po' artefatti), del "tener duro" e della lotta contro un'ingiustizia senza fondamenti, ma inevitabile quanto il compromesso (non solo nella qualità dei dialoghi) con la quale si scenderà a patti, il secondo, immancabilmente più trasportante, racconta (o quasi suggerisce), in un tempo e in un colore "antecedente", la purezza e la veridicità dell'amore, la nascita (o la sua consapevolezza) e le tappe fondamentali, incorniciate in primi piani pittorici (la bellezza accennata è riferita anche a ciò, anche se questi non convincono molto), con un velluto musicale sicuramente degno della nomination agli Oscar, ne ha ricevute in totale tre, ne ha vinto uno per la migliore attrice non protagonista a Regina King, che sì è brava, ma il premio è forse esagerato. La pellicola così nella sua interezza si dimostra godibile ed apprezzabile, difficile da digerire nelle sequenze più discorsivo, ma (appunto) appagante nel momento in cui il testo cede il posto ai monologhi visivi (comunque decisamente troppo patinati in parecchie situazioni) ed alla bella (di cui prima) colonna sonora di Nicholas Britell. Non è tuttavia (e di alcuni già accennati tra le pieghe della scrittura) un film privo (anzi) di difetti, nonostante le buone intenzioni, alcuni personaggi sono un po' troppo caricati (vedi madre e sorelle di Fonny), l'intervallare con flashback non aiuta la fluidità della narrazione, c'è un abbondanza di stereotipi (con un pizzico di retorica, nonché di razzismo al contrario) e sentimentalismi profusi, innanzitutto, sul concetto di Amore relativo al rapporto di coppia, è il ritratto molto puritano di una sorta di sacra famiglia, nonostante la presa di distanza dal fanatismo religioso in una delle scene clou, scena in cui si arriva a giustificare le reazioni violente verbali e fisiche, però è un film in cui non si può non rimanere addolorati, indignati per le cose che non vanno mai nella giusta direzione, nonostante l'impegno, l'onestà, la buona volontà e lo sforzo di un sorriso, nonostante tutto. Un film che, non è un caso, contrariamente a quanto potrebbe non apparire, è un'opera per niente consolatoria, quasi amara: l'happy ending è infatti solo teorico, possibile solo grazie al compromesso, e i protagonisti porteranno per sempre le cicatrici della loro condizione sociale allo stesso modo di un'intera comunità che subirà sempre sulla propria pelle le conseguenze degli (ultimi?) strascichi della propria centenaria segregazione. E insomma film non brutto, non bellissimo, non memorabile, carino sicuramente, interessante certamente, però soprattutto e comunque da vedere.
Regia/Sceneggiatura/Aspetto tecnico/Cast: Non c'è una sola strada in Se la strada potesse parlare quanto tantissimi piccoli, brevi sentieri che Barry Jenkins (che ha adattato lui stesso il romanzo per il film) tenta di seguire ma di cui poi perde il filo, dall'indagine del tribunale al viaggio di Sharon (Regina King), dai furti dei due padri di Tish e Alonzo al ruolo di Daniel (il Brian Tyree Henry di Widows), con goffaggini davvero troppo evidenti (un Dave Franco deus ex machina proto-hippy abbastanza risibile, tanto quanto l'agente Bell di Ed Skrein, malvagio e diabolico più dell'Ajax/Francis che l'attore interpretava in Deadpool). Ma è questo volersi protendere di continuo per poi retrocedere e racchiudersi in se stesso a decretare la peculiarità di un'opera che riflette sull'impossibilità di trovare un posto nel mondo, di avere un po' di pace, di poter vivere la propria vita con quel minimo di dignità che spetta di diritto a ciascuno: ed è nell'orchestrazione dei primi piani, lenti, folgoranti e vibranti dei due amanti che si guardano l'un l'altro che il regista la riscontra, trovando in essi una confort zone nella quale riparare per sapersi indistruttibile. Tuttavia è solo grazie alla colonna sonora, alle interpretazioni attoriali (seppur non tutte brillanti e meritevoli d'attenzione) e al tessuto stesso del racconto dolceamaro, a dare valore al film, ad un film comunque non del tutto imprescindibile.
L'intero film ci suggerisce due approcci essenziali: uno legato agli accadimenti del presente (forse un po' artefatti), del "tener duro" e della lotta contro un'ingiustizia senza fondamenti, ma inevitabile quanto il compromesso (non solo nella qualità dei dialoghi) con la quale si scenderà a patti, il secondo, immancabilmente più trasportante, racconta (o quasi suggerisce), in un tempo e in un colore "antecedente", la purezza e la veridicità dell'amore, la nascita (o la sua consapevolezza) e le tappe fondamentali, incorniciate in primi piani pittorici (la bellezza accennata è riferita anche a ciò, anche se questi non convincono molto), con un velluto musicale sicuramente degno della nomination agli Oscar, ne ha ricevute in totale tre, ne ha vinto uno per la migliore attrice non protagonista a Regina King, che sì è brava, ma il premio è forse esagerato. La pellicola così nella sua interezza si dimostra godibile ed apprezzabile, difficile da digerire nelle sequenze più discorsivo, ma (appunto) appagante nel momento in cui il testo cede il posto ai monologhi visivi (comunque decisamente troppo patinati in parecchie situazioni) ed alla bella (di cui prima) colonna sonora di Nicholas Britell. Non è tuttavia (e di alcuni già accennati tra le pieghe della scrittura) un film privo (anzi) di difetti, nonostante le buone intenzioni, alcuni personaggi sono un po' troppo caricati (vedi madre e sorelle di Fonny), l'intervallare con flashback non aiuta la fluidità della narrazione, c'è un abbondanza di stereotipi (con un pizzico di retorica, nonché di razzismo al contrario) e sentimentalismi profusi, innanzitutto, sul concetto di Amore relativo al rapporto di coppia, è il ritratto molto puritano di una sorta di sacra famiglia, nonostante la presa di distanza dal fanatismo religioso in una delle scene clou, scena in cui si arriva a giustificare le reazioni violente verbali e fisiche, però è un film in cui non si può non rimanere addolorati, indignati per le cose che non vanno mai nella giusta direzione, nonostante l'impegno, l'onestà, la buona volontà e lo sforzo di un sorriso, nonostante tutto. Un film che, non è un caso, contrariamente a quanto potrebbe non apparire, è un'opera per niente consolatoria, quasi amara: l'happy ending è infatti solo teorico, possibile solo grazie al compromesso, e i protagonisti porteranno per sempre le cicatrici della loro condizione sociale allo stesso modo di un'intera comunità che subirà sempre sulla propria pelle le conseguenze degli (ultimi?) strascichi della propria centenaria segregazione. E insomma film non brutto, non bellissimo, non memorabile, carino sicuramente, interessante certamente, però soprattutto e comunque da vedere.
Regia/Sceneggiatura/Aspetto tecnico/Cast: Non c'è una sola strada in Se la strada potesse parlare quanto tantissimi piccoli, brevi sentieri che Barry Jenkins (che ha adattato lui stesso il romanzo per il film) tenta di seguire ma di cui poi perde il filo, dall'indagine del tribunale al viaggio di Sharon (Regina King), dai furti dei due padri di Tish e Alonzo al ruolo di Daniel (il Brian Tyree Henry di Widows), con goffaggini davvero troppo evidenti (un Dave Franco deus ex machina proto-hippy abbastanza risibile, tanto quanto l'agente Bell di Ed Skrein, malvagio e diabolico più dell'Ajax/Francis che l'attore interpretava in Deadpool). Ma è questo volersi protendere di continuo per poi retrocedere e racchiudersi in se stesso a decretare la peculiarità di un'opera che riflette sull'impossibilità di trovare un posto nel mondo, di avere un po' di pace, di poter vivere la propria vita con quel minimo di dignità che spetta di diritto a ciascuno: ed è nell'orchestrazione dei primi piani, lenti, folgoranti e vibranti dei due amanti che si guardano l'un l'altro che il regista la riscontra, trovando in essi una confort zone nella quale riparare per sapersi indistruttibile. Tuttavia è solo grazie alla colonna sonora, alle interpretazioni attoriali (seppur non tutte brillanti e meritevoli d'attenzione) e al tessuto stesso del racconto dolceamaro, a dare valore al film, ad un film comunque non del tutto imprescindibile.
Commento Finale: Se la strada potesse parlare, atteso ritorno del regista che due anni fa strappò consensi (in parte meritati) e soprattutto premi (molto meno) con l'opera prima Moonlight: meno episodico del film con Mahershala Ali ma anche meno focalizzato, questo Barry Jenkins 2.0 vuole andare in molte direzioni, dal dramma sentimentale a quello da tribunale, da storia di formazione verticale ad orizzontale racconto della quotidianità, ma finisce col perdersi un po' qui e un po' lì: forse se ne accorge anche lui, perché ogni volta che rischia la deriva torna al fulcro del suo film, rappresentato dai suoi due protagonisti e dal legame che li unisce, ed è dentro di loro che trova la forza necessaria per chiudere un film che è sì piccolo, in termini di ambizioni e tematiche, ma comunque significativo e risonante, un film sufficientemente bello.
Consigliato: Sì, soprattutto agli amanti del genere.
Voto: 6
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