Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 20/03/2017 Qui - In una Roma quanto mai cupa e inquieta, minacciata da una serie di attentati dinamitardi, varie combriccole di malviventi si muovono nei bassifondi, contendendosi la gestione di traffici illeciti e arrabattandosi tra piccoli crimini e regolamenti di conti. Tra questi piccoli criminali c'è anche Enzo Ceccotti, ladruncolo schivo e solitario che un giorno, per sfuggire a due poliziotti che gli stanno alle calcagna si tuffa nel Tevere e entrando in contatto con alcune sostanze tossiche fuoriuscite da dei barili gettati sul fondo del fiume, si scopre in possesso di una forza e resistenza sovraumane. L'uomo, che vive da solo e non ha grandi aspirazioni per il futuro, finirebbe sicuramente col diventare un super-delinquente se il destino non gli facesse incontrare Alessia, una giovane ragazza sensibile e schietta, ma mentalmente instabile, ossessionata dal personaggio di Jeeg Robot d'acciaio (in omaggio alla serie manga e anime Jeeg robot d'acciaio di Gō Nagai, della quale il film riprende alcune tematiche), che Enzo salverà da una brutta situazione, con cui inizierà a stringere con lei un legame sempre più forte, portandolo pian piano dalla parte del bene. Enzo-Hiroshi però dovrà lottare contro la banda dello Zingaro, un cattivissimo Joker 'de noartri' disposto a tutto per raggiungere il potere e la fama. Una serie incredibile di colpi di scena e di trovate esilaranti condurrà i due rivali allo scontro finale, alla battaglia epica tra il bene e il male, dove naturalmente non potrà che trionfare il bene. Detta così, la storia raccontata dallo strepitoso esordio di Gabriele Mainetti sembrerebbe assurda e strampalata, cinematograficamente una follia, un azzardo destinato a un b-movie da dimenticare in fretta. Invece no, Lo chiamavano Jeeg Robot (film del 2015 diretto e prodotto da Gabriele Mainetti e scritto da Nicola Guaglianone e Menotti) è un film tanto coraggioso quanto riuscitissimo, un'opera geniale destinata a rappresentare un passaggio importante nella storia del cinema italiano. Apparentemente la struttura narrativa del film segue difatti l'archetipo classico del mito del supereroe, anche qui, infatti, un uomo qualunque riceve inaspettatamente dei super-poteri, ovviamente non senza difficoltà, attraverso una maturazione interiore in cui diventa consapevole della responsabilità che la nuova condizione esistenziale gli impone, ma non deve trarre in inganno perché l'opera prima del regista è un film duro, violento, malinconico, realistico, stratificato, che concede ben poca ironia e leggerezza rispetto ai blockbuster d'oltreoceano, piuttosto omaggia con nostalgia lo spirito più adulto e agrodolce dei manga nipponici, in cui l'eroe spesso e volentieri cammina su quella linea sottile che separa la giustizia dalla criminalità, il bene dal male, e spesso agisce volutamente nell'ombra, senza cercare né fama né gloria.
Il protagonista, incarnato con grande intensità e al tempo stesso misura da un ottimo Claudio Santamaria (che sa esprimere nei comunicativi silenzi, nei gesti goffi e negli sguardi vuoti tutto il travaglio interiore del personaggio) è infatti un uomo tutt'altro che coraggioso, generoso o carismatico, è un tipo comune, taciturno, grezzo, asociale, apatico, incapace di coltivare amicizie o affetti, tutto chiuso nel proprio angusto isolamento. Non comprende pienamente il significato della sua nuova forza, se non quando casualmente inizia a sfruttarla per compiere delle azioni positive. La trama insomma, sembrerebbe quindi perfettamente in linea con un fumetto o un film superomistico, ma se la struttura narrativa è da hero-movie americano, per la sua sostanza filmica però Lo chiamavano Jeeg Robot è italianissimo. Si propone come un film di genere ma sfugge a ogni classificazione perché di generi ne mescola tanti (fantasy, noir, azione, drammatico), ci gioca ma senza snaturarli o sconfinare nel grottesco. Perché la storia di Enzo è tanto bizzarra e inverosimile quanto è credibile e realistica. Il nostro Hiroshi non vive a Tokyo o a Gotham City ma nella degradata periferia romana, non ha una tuta per mascherarsi ma un banale cappuccio, senza l'amore di Alessia, il vero super-potere, resterebbe un balordo. Tutti i personaggi sembrano usciti dai fumetti ma, al tempo stesso, sono incredibilmente veri, li sentiamo vicini perché ci trasmettono umanità. In Lo chiamavano Jeeg Robot infatti, Mainetti ci ha messo tutto se stesso, senza calcoli né compromessi, per questo riesce ad emozionarci, si respira la sua passione per i cartoni animati e per un cinema libero, senza generi o schemi predefiniti. Poiché la storia di Enzo Ceccotti, non è solo la storia di un supereroe di borgata (dato che accettando i doveri morali diventa ufficialmente un supereroe, che dovrà quindi combattere contro il male, come sempre rappresentato da un anti-eroe), né una delicata storia d'amore (anche se il colpo al cuore è straziante), né una riflessione sulla malavita o una divagazione sui robot dei cartoni giapponesi, è molto di più.
Un film meta-metropolitano, favola, fantascienza e noir assieme, eccellentemente scritto da Nicola Guaglianone (non si può difatti non elogiare una sceneggiatura innovativa e narrativamente perfetta, scritta insieme al fumettista Menotti) e interpretato da Santamaria che, per dare 'peso' al ruolo prende 20 chili. Una performance indimenticabile, risultato di molte prove e anche di un casting perfetto per i ruoli di tutti ma, in particolare, quella di Luca Marinelli (già tanto apprezzato in Non essere cattivo), il suo antagonista, Fabio Cannizzaro, detto Lo Zingaro, capo di una banda di narcotrafficanti, che è invece il suo opposto, egocentrico, esibizionista, logorroico, arrogante e spietato, guidato dalla smodata ambizione di conquistarsi una fetta di popolarità nella società e tra i suoi pari, anche se ciò significa sacrificare le persone che conosce da una vita o fare delle vittime innocenti (vestito come una drag queen, sociopatico e cantante, vittima da social, malato di apparizione, ma fragile fragilissimo). Un personaggio all'apparenza scontato, ma invece ricco e ben caratterizzato nei minimi dettagli da Marinelli che regala allo spettatore almeno un paio di scene cult al pari dei più grandi villains del cinefumetto (la scena in cui canta Un'emozione da poco di Anna Oxa è da urlo, oltre che surreale), ispirandosi in parte all'irriverenza folle del Joker in parte alle stravaganze delle ambigue icone pop degli anni '80. Altrettanto sorprendente e toccante è la prova dell'esordiente Ilenia Pastorelli (bellissima e dolcissima), coprotagonista femminile abbastanza insolita e complessa, lontana dagli stereotipi del puro interesse romantico, incarna una figura di donna candida e sensuale, dolce e tenace, fragile e sincera, ferita ma ancora disposta a credere nel bene, a credere di esser difronte a un film emozionante, avvincente e bellissimo.
Un film profondo, ricchissimo di contenuti che emergono a strati, come spelando una cipolla, commovente, reale e fantasioso, mai banale e molto comico, ad esempio quando viene tirata in testa una tazza di un cesso, rubato un bancomat, o mozzato un mignolo di un piede che non si riattacca, episodi definiti tutti già in una dettagliatissima e originale sceneggiatura. E' qui infatti che il regista dimostra di non aver avuto solo la trovata geniale, ma anche la capacità di scrivere il film fino in fondo e regalarci un pellicola straordinaria che, seppur non esente da difetti, sia per l'uso smodato del romanesco (non sempre 'capibile'), sia dal punto di vista della sceneggiatura con troppi finali annunciati ed eccessivamente lungo, esalta lo spettatore, lo fa divertire, lo fa ridere genuinamente. La narrazione difatti ha un ritmo fluido e coinvolgente, molto equilibrata tra azione e momenti riflessivi, offrendo anche non pochi colpi di scena, mentre gli effetti speciali, di solito punto dolente nelle produzioni italiane, sono anch'essi ben gestiti, senza troppi orpelli, rendendo con efficacia i poteri del protagonista. In un film dove ogni cosa è curatissima e funzionale alla storia, anche se ci sarebbero molti altri aspetti da focalizzare, dalla bella fotografia alle splendide musiche. Delle strepitose interpretazioni degli attori invece basti dire che ai David di Donatello 2016 (gli 'Oscar italiani' che settimana prossima ci saranno), Lo chiamavano Jeeg Robot ha visto premiati (cosa mai vista) tutti gli interpreti, miglior attore protagonista a Claudio Santamaria, miglior attrice protagonista a Ilenia Pastorelli, attore non protagonista a Luca Marinelli e attrice non protagonista ad Antonia Truppo (a proposito, gustosa è la presenza del clan napoletano di Salvatore Esposito e Gianluca Di Gennaro, entrambi direttamente da Gomorra). Tutti elementi che aggiungono qualità al prodotto raggiungendo livelli altissimi di recitazione, ma di questo non avevamo dubbi, sappiamo che in Italia abbiamo degli attori eccellenti, meno dotati lo siamo invece dietro la macchina da presa, per non parlare degli sceneggiatori, dato che molto spesso copiamo da altri e i registi si sforzano poco. Ma quando tutte queste cose s'incontrano al punto giusto, con l'aggiunta di un pizzico di follia, ne possono uscire cose egregie come questa qua, perché nel cinema contano anche le idee. Come l'idea geniale di aver prodotto questo film, film da vedere, piacevole, scorrevole, simpatico con battute gradevoli e soprattutto semplice e funzionale. Il film di un riluttante eroe metropolitano ancora in cerca della sua vera vocazione ma che ha sicuramente lasciato un segno nel cinema italiano dell'ultimo periodo. Voto: 8