Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 18/04/2017 Qui - Per chi mi conosce e qualcosa sa, saprà che vedere Io prima di te (Me Before You), film del 2016 diretto dalla sconosciuta Thea Sharrock, tratto dall'omonimo libro di Jojo Moyes, non è stato per me del tutto facile, anche se purtroppo il film seppur emozionante è davvero tanto banale quanto superficiale, per cui non mi ha del tutto scosso, anzi, mi ha pure un po' infastidito, non tanto per i luoghi comuni nei confronti dei disabili (passabili anche se abbastanza irritanti), quanto per le scelte, personalmente sbagliate, del protagonista e anche della regista nonché di tutto il film, che lascia secondo me un messaggio negativo più che positivo sulla vita. Questo perché il film che propone temi delicati, che racconta la storia di un ragazzo trentenne divenuto quadriplegico dopo esser stato investito da una moto che viene assistita per fargli compagnia (e fargli cambiare idea su di una drastica decisione) da una dolce tanto goffa quanto sensibile e piena di buona volontà ragazza, diviene man mano la classica (stucchevole) storiella d'amore tra un principe azzurro ricco (e belloccio) e la crocerossina povera, troppo prevedibile sin dall'inizio, anche se, cosa protesti mai trovare in una romantica commedia se non miriadi di cliché? sì è vero, ma non così, e soprattutto non con un finale (solo cinematograficamente parlando degno) che lascia secondo me un messaggio sull'amore abbastanza banale e non giustificato.
Certo, è cinema, ma davvero rinuncerei all'amore di una ragazza che ti ama come sei (e a tutte le possibilità finanziarie disponibili a fare qualunque cosa nonostante tutti i problemi del caso), solo perché hai perso la possibilità di tornare ad essere quello di prima, in questo caso un vanesio dongiovanni che girava il mondo a divertirsi e a liquidare società in difficoltà? Se fossi io, assolutamente no, anzi, magari accadesse davvero di trovare quella giusta (e certamente non per forza tanto stramba e sciocca) che ti ami e avessi pure tanti soldi da non fare niente e godersi (nonostante tutto) la vita, vita che mai andrebbe gettata, perché vale la pena di essere vissuta in qualsiasi circostanze, anche in quelle che io conosco benissimo purtroppo. Il film infatti ripropone il tema dell'eutanasia, anche in maniera molto forte (seppur superficiale), toccando i sentimenti a mo' di fili scoperti, sentimenti insiti nella semplicità ingenua e solare di una ragazza che potrebbe essere (forse) chiunque, ma tutto è troppo semplicistico per fare breccia. Il delicatissimo tema dell'eutanasia viene difatti proposto, trattato e liquidato in modo convenzionale, i toni sono (giustamente) seri e misurati, la risoluzione però facile, superficiale. Soprattutto per quelli che sono gli (indigesti) effetti, ovvero l'immancabile edificante messaggio finale (da romanzo Harmony) sul vivere e vivere con audacia, aprirsi al mondo eccetera. Nuove prospettive per la protagonista, vecchi sermoni per lo spettatore.
La narrazione degli eventi poi è raffazzonata e frettolosa. La storia d'amore invece è costruita con superficialità, mentre lei appare troppo caricaturale come il film stesso. Tutto un po' troppo, dato che il personaggio suscita sì risposte favorevoli come pure, a tratti, moti d'irritazione. Emilia Clarke, che la interpreta in versione "nature", mette dedizione alla causa e un bagaglio di smorfie, facce, reazioni disegnate chiaramente sul volto, e fisico lontano dall'algida perfezione di bionde modelle (alquanto insopportabile seppur dolcissima certe volte). Lodevole l'impegno (e il palese tentativo di allontanarsi dall'ingombrante ruolo che le ha dato popolarità), altalenante la resa, più per come è impostata Louisa che per demeriti propri, discreta l'intesa con Sam Claflin (comunque insopportabile come il suo Will), giusto dare tempo all'evoluzione del loro rapporto (si deve la svolta a un film francese con i sottotitoli). Attorno a loro, gli altri personaggi (familiari, conoscenti, terapisti, amici e vecchi amici, comparse) s'aggirano in maniera intuibile, convenzionale, tra cui Charles Dance, che rimane un attore carismatico ed eccezionale nonostante tutto, un Signore in tutto, e Jenna Coleman, apprezzata tantissimo recentemente in Victoria. Insomma non così coinvolgente come mi aspettavo e neanche così tanto emozionante nonché bello, solo troppo banale, poco importante e del tutto errata la scelta finale, perché seppur un po' giustificato riflette in modo negativo una realtà non del tutto vera. Non tutti potrebbero pensarla come il protagonista, vigliacco ed egoista. Comunque in mezzo a tutta la nettezza spacciata per cinema che questo film si porta dietro, si salva giusto qualche brano carino della soundtrack e la buona fotografia di Remi Adefarasin (direttore della fotografia anche del discreto Match Point di Allen) alla quale però il taglio televisivo della regia non rende giustizia. Vedibile ma dimenticabile. Voto: 6-