Titolo Originale: Sånger från andra våningen
Anno e Nazione: Svezia, Norvegia, Danimarca 2000
Genere: Drammatico
Regia: Roy Andersson
Sceneggiatura: Roy Andersson
Cast: Lars Nordh, Stefan Larsson
Bengt C.W. Carlsson, Torbjörn Fahlström
Bengt C.W. Carlsson, Torbjörn Fahlström
Durata: 96 minuti
Primo capitolo di una trilogia sull'umana esistenza del regista Roy Andersson.
Sogni, speranze e sconfitte di alcuni fragili e bizzarri personaggi, descritti sullo sfondo di una Svezia apocalittica. Tra questi, un padre e il suo problematico figlio internato in manicomio.
Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 16/04/2020 Qui - Con questo film che compie ora vent'anni, Roy Andersson apre il sipario sulla sua surrealista "Living Trilogy" (dedicato all'assurdità dell'esistenza), destinata a proseguire con You, the Living del 2007 (prossimo alla visione) e a concludersi nel 2014 con A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence, che da noi suona appunto come "Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza", l'unico visto e da cui è nata la voglia di recuperare i primi due, giacché la sua particolarità mi è rimasta sempre impressa. Ed ovviamente particolare è questa pellicola (vista con l'ausilio dei sottotitoli), che certo è lenta, frammentata, inevitabilmente poco coinvolgente, di fatto, però, le riflessioni da essa scaturite mi hanno "preso", e reso così consapevole di aver visto un film perlomeno intelligente. Sì perché il regista, mettendo in scena il grottesco connaturato al quotidiano, con uno stile limpido e cristallino (i quadri fissi, simmetrici e luminosi, a simbolizzare la staticità di una società al collasso) che fa emergere per contrasto la desolazione imperante, ci trasporta consapevolmente in tutta la "pesantezza del vivere" e si rende manifesto arguto (situazioni surreali, in molti casi divertenti). Consumismo, crisi economica, omologazione di massa: le piaghe contemporanee sono sviscerate con ironia e tenerezza (lo sguardo autoriale si fonde partecipe con quello dei disperati protagonisti, ridotti a manichini inerti), denunciando l'impossibilità di un riscatto, assente perfino nell'illusione. La vita come viaggio senza meta: una satirica e malinconica presa di coscienza condotta con solennità liturgica, che veicola (e giustifica) l'amara visione, affatto catartica e consolatoria, di una religione ormai tristemente commercializzata ("Come puoi fare soldi su un perdente crocifisso?"). Un film ostico e stratificato (che non risparmia niente e nessuno), non facilmente né immediatamente comprensibile (una serie di immagini grottesche, scollegate spesso l'una dall'altra e in cui, sforzandosi, si può trovare dei significati), che comunque regala almeno due sequenze memorabili: il Cristo ciondolante dalla croce, sconcertante simbolo di una fede che vacilla, e l'emblematico (nonché calzante) finale. Un film quindi difficile da giudicare, che pure alla 53ª edizione del Festival di Cannes vinse il premio della giuria, ma un film comunque notevole. Voto: 6,5
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