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sabato 20 luglio 2019

Il libro di Henry (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 28/06/2019 Qui
Tema e genere: Un giallo capace di strapparvi qualche sorriso e un paio di lacrime.
Trama: Henry scopre che la sua compagna di classe Christina subisce maltrattamenti dal parte del patrigno. Escogita un piano per liberarla, ma verrà interrotto dalla scoperta di un nemico ben più insidioso.
Recensione: A metà tra Gifted e Wonder, nel primo un bambino, anzi bambina, prodigio, nel secondo la presenza di Jacob Tremblay, ma entrambi sensibili, dolci e belli, Il libro di Henry è un film drammatico con venature thriller, ugualmente emozionante e bello, anche se meno potente e più discontinuo. In questo film infatti, se la situazione iniziale compone un panorama in cui nulla sembra essere al proprio posto, nel corso della vicenda quella che era iniziata come una commedia famigliare si tratteggia sempre più di tinte thriller, per poi sfociare in un mix drammatico: i twist narrativi sono arditi e le dinamiche di relazione tra i personaggi accattivanti. Difatti il film sin dalla prima sequenza della presentazione del giovane Henry gioca sull'espediente dello sconvolgimento dei ruoli sociali e dei caratteri attribuiti ai singoli tipi. Henry viene tratteggiato non solo come un ragazzo prodigio, ma come un uomo già con la maturità e i comportamenti equilibrati di un padre, che sembrerebbe sapere ciò che è giusto per sé e soprattutto per la sua famiglia, sua madre Susan, donna affettuosa ma distratta, si affida in tutto alle competenze del figlio che adora, Peter, fratellino meno dotato ma dolcissimo, sembra l'unico a ricoprire un ruolo convenzionale, amorevole mediazione tra la madre svagata e il figlio maturo. Questi tre ingredienti, miscelati con le caratteristiche dei tre protagonisti, creano l'ossatura del film. Ed è per questo che è facile percepire talvolta un evidente senso di discontinuità, come se il prodotto di Colin Trevorrow fosse collage di tre storie a sé stanti, che potrebbero svilupparsi in film differenti. Con qualche furbizia cinematografica il film fa dei bambini e ottimi attori (Jacob Tremblay nei panni di Peter e Jaeden Lieberher in quelli di Henry) il proprio punto di forza in modo un po' ruffiano, spesso trascurando l'approfondimento dei rapporti tra i protagonisti: così il legame tra la Susan e il figlio minore non raggiunge mai una profondità tale da dare coerenza all'evoluzione del personaggio di Naomi Watts, che si porta avanti stancamente fino alla svolta delle sequenze finali. Pure in questo equilibrio precario la sceneggiatura osa al punto giusto, e questo scavalcamento di generi così ardito riesce a non deflagrare. Lo stratagemma ideato per la risoluzione del filone thriller, che scioglie poi anche tutti gli altri nodi narrativi, si mescola con il dramma dell'elaborazione del lutto, fornendone una declinazione non banale e a tratti commovente, pure nella dichiarata incoerenza di alcuni comportamenti dei protagonisti. Ed è nelle ultime sequenze che con sorpresa ricongiungiamo i percorsi fin qui tracciati dal regista, che vuole in fondo mostrarci la storia di formazione della madre-Susan, di come diventare adulti voglia dire non solo prendersi le responsabilità delle proprie azioni, ma anche dare giusto valore ad ogni cosa e prendere sulle proprie spalle le piccole debolezze di coloro a cui si vuol bene. In questo modo ogni cosa torna al proprio posto e quel plautino sconvolgimento di ruoli iniziale si raddrizza in sequenze pregne di tensione, che si sciolgono poi con un desiderato (e molto americano) lieto fine. E lieto resta però anche l'animo dello spettatore, nella consapevolezza di aver visto un'opera che forse non riesce ad uscire dall'incasellamento dei generi americani, ma che ha almeno la capacità di non bearsi dell'uso smodato dei suoi cliché. Ideando, anzi, strategie accattivanti per catturare lo spettatore e trasportarlo in un universo narrativo di puro intrattenimento.